lunedì 10 ottobre 2011

A proposito di libri "minori"... che però si possono amare

Non si ha il tempo per fare tutto ciò che si vorrebbe: questo si sa.

Di conseguenza, non si ha il tempo per leggere tutto ciò che è stato pubblicato o si pubblica in Italia (non dico in Europa o nel mondo, poi...!): questa sembrerà ai più un'osservazione superflua, ma per chi ama la lettura e la conoscenza si tratta di un vero “dramma”.

Se questa limitazione “costitutiva” della nostra esistenza (di lettori) è vera (e lo è, eccome!), sorge un dilemma: che cosa leggere, nel tempo “non infinito” che abbiamo? Come orientarsi nella (drastica, ma inevitabile) scelta dei libri da leggere (che implica una parallela scelta dei libri da “scartare”)?

Dobbiamo forse puntare sulle ultime novità, tralasciando tutto ciò che è datato e rétro? Dobbiamo scegliere affidandoci alle recensioni che ci convincono? O magari puntare solo sui best sellers, confidando quindi nel “fiuto” del popolo dei lettori (e anche del marketing)? E perché non fidarsi del “passaparola” di amici che ci consigliano buone letture?

E perché invece non scegliere soprattutto classici che non deludono (quasi) mai?

O è meglio, piuttosto, dare la priorità alla conoscenza approfondita dell'opera di scrittori che amiamo particolarmente?

Tante domande, tante soluzioni; probabilmente la cosa migliore è miscelare i diversi criteri con giudizio, affidandosi anche al proprio istinto di lettore e alla curiosità, che si alimenta soprattutto frequentando fisicamente le librerie e sfogliando i libri posti sugli scaffali – non disdegnando, certo, i consigli dei recensori, che adesso sono accessibili a tutti anche grazie a numerosi blog specializzati.

Ritengo comunque che siano l'istinto e l'esperienza a guidarci innanzitutto, e gli incontri fortuiti, casuali, fra un lettore e un libro, sono a volte carichi di piacevoli sorprese; e – elemento non secondario – un libro, come qualsiasi opera artistica, può comunicare a ciascun lettore impressioni e sensazioni differenti, e insomma, a seconda del lettore che “incontra” sulla propria strada, lasciare traccia di sé in maniera mutevole e imprevedibile.

Ci sono capolavori della letteratura che riescono a catturare e ad appassionare moltitudini di lettori, sparsi in diversi angoli del pianeta; ma ci sono anche opere apparentemente “minori”, o – a detta di molti (critici, studiosi, ecc.) – meno riuscite, che però possono, nonostante la loro “imperfezione” (ma oso dire: talvolta persino grazie a questa), deliziare qualche lettore che casualmente le incontra sul proprio cammino e che vi trova qualcosa che colpisce profondamente il suo animo e che fa sì che quell'incontro – forse non per tutti i lettori, ma certamente per quel particolare lettore – come i migliori incontri sentimentali, diventi indimenticabile.

L'opera “minore” può anche essere scritta da un buon autore: non tutto ciò che i “grandi” scrivono si può classificare come capolavoro.
Eppure, anche in quell'opera “minore” possiamo trovare elementi, caratteristiche, motivi che ce la fanno amare, specialmente se nasce dalla penna di un grande autore: possiamo infatti trovarvi, sia pure all'interno di una struttura non del tutto risolta (narrativamente, formalmente, stilisticamente, ecc.), invenzioni che portano i segni della buona letteratura, o almeno situazioni, descrizioni, personaggi, ecc., che restano impresse/i nella memoria come cose vive.

E poi, se è vero che un autore talvolta si affeziona particolarmente alle sue “creature” più sfortunate o meno riuscite, la stessa cosa può dirsi a proposito di certi lettori: anche questi, infatti, possono affezionarsi a belle pagine o bei personaggi inseriti in un'opera “sfortunata” o imperfetta, a maggior ragione anzi a causa di questa sfortuna o imperfezione. E' come se, strizzando l'occhio all'autore, adottassimo amorevolmente quell'opera: nasce così una complicità intima e unica fra noi lettori e quel libro di solito negletto e scansato.

Ammetto che io sono un lettore di questa specie: di solito esigente, sono però capace di “adottare” un libro “minore” e dai più considerato “imperfetto”, arrivando a porlo fra le mie letture preferite. Non mi fa paura l'imperfezione. E non credo, d'altra parte, che un lettore sia tenuto a nutrirsi soltanto di riconosciuti capolavori. Lo spirito di esplorazione e di conoscenza, che di solito governa l'attività del lettore, deve saper andare oltre le categorie e le classifiche, e accettare il rischio di incontri al buio, per così dire.


Ho scelto di accennare qui a una tra le mie “esperienze” di lettura che rientrano più o meno in questa categoria: si tratta di un breve romanzo di Dino Buzzati, considerato appunto di solito “minore” – e infatti non lo trovate citato fra i suoi grandi romanzi, come Il deserto dei Tartari, ad esempio.

Il romanzo si chiama Il grande ritratto e fu pubblicato nel 1960.
Forse – lo ammetto – la maggior parte dei suoi personaggi principali non risulta “memorabile”, talora sembra appena abbozzata; ciascuno di loro promette un'evoluzione che forse non mantiene fino in fondo. (Eccezione importante, a parte quella essenziale, sulla quale mi soffermerò dopo, è la “frivola” e vitale Olga, che col suo comportamento dà, senza volerlo, la svolta decisiva alla vicenda narrata nel libro, e che sembra avere una sua personalità autentica.)
Quello che in un primo tempo sembra il protagonista, ovvero Ermanno Ismani, «ordinario di elettronica all'università di X» [Buzzati 1981, p. 27], di fatto ad un certo punto, nel corso delle pagine, si fa in disparte.

Magari, chissà, il lettore abitudinario può sentirsi spiazzato da un tale declassamento “in corso d'opera”, e anche un tantino deluso; io invece non trovo che un autore sia tenuto a conservare ad uno stesso personaggio, per un intero romanzo, il titolo e le funzioni di “protagonista”; può benissimo, come accade al gentile Ismani del libro in questione, utilizzarlo per condurci – mediante un viaggio verso una località ignota e attraverso le paure che il viaggiatore alias iniziale protagonista prova, non solo per il paesaggio non del tutto amichevole, ma soprattutto per i presagi che questo gli fa cogliere – nel luogo ove si svolgerà la parte principale della vicenda.

Giunti qui (il protagonista iniziale, e i lettori con lui), tutto cambia, e l'Ismani va a finire a poco a poco nell'ombra. Svolta la sua funzione, perde lo scettro e si ritira in buon ordine. A me questa scelta di Buzzati piace; certe apparenti “imperfezioni” del narrare (rispetto agli schemi codificati del rapporto autore/lettore) le gradisco – ma si tratta di gusto personale, forse non condiviso.

Il vero protagonista diventa per un po' il mistero che la montagna, ove si trova un laboratorio segreto militare, racchiude. Ma il mistero non resta tale a lungo: presto si scopre che il laboratorio serve a tenere in “vita”, dopo averla costruita, una particolarissima creatura, frutto dell'ingegno e dell'inventiva in qualche modo romantica di alcuni geniali scienziati.

Proprio questo “personaggio”, che è umano e al tempo stesso non lo è, mi ha catturato, fin dal suo primo comparire nelle pagine del romanzo in questione. Per la sua stessa natura (che non voglio qui svelare del tutto, per non rovinare il piacere della scoperta a chi volesse leggere il libro), descrivere tale “creatura” sarebbe una scommessa difficile per qualsiasi scrittore: eppure, a mio avviso, Buzzati quella scommessa l'ha vinta. Sarà una mia personalissima opinione, magari non condivisa da nessuno, però è così che la penso.

Trovo che l'idea stessa di immaginare una creatura artificiale e intelligente, che abbia quella forma e quella fisionomia, sia affascinante; e di conseguenza il dramma che essa vive – e non a caso uso il genere femminile, giacché di una donna si tratta (anche se di umano ha solo la mente) – ha una sua validità e “verità” poetica e letteraria.

Forse i personaggi di contorno non sono all'altezza di quella invenzione buzzatiana, come ho già accennato, tuttavia la costruzione, pagina per pagina, di quella creatura, che vive una silenziosa tragedia per il suo non essere compiutamente umana pur desiderandolo, è un ammaliante esempio di maestria letteraria, a mio parere (per quanto poco questo possa valere).

Uno dei drammi, che la “creatura” vive nel romanzo, è quello di non riuscire a comunicare che attraverso suoni che soltanto pochissime persone possono decifrare nella giusta maniera; e i segni vitali della sua esistenza non sono comparabili a quelli umani (respiro, battito del cuore, ecc.) eppure assomigliano a questi in maniera sotterranea e inesplicabile.

Nel descrivere questa vita così diversa da quella umana, eppure palpitante e sofferente, Buzzati dà fondo alle sue raffinate capacità di produrre suggestioni attraverso le frasi e il loro ritmo, le loro intime “pulsazioni”.

Ne do qui qualche esempio, per creare a mia volta qualche suggestione (o meglio, forse, curiosità) a beneficio di chi legge.

«Tacquero. Un curioso suono, qualcosa che assomigliava a un sussurro d'acqua, a un flebile cigolio, a un sufolo sommesso, si snodava nell'aria, rotto irregolarmente da interruzioni, scatti, tremiti; andava e veniva con capricciosi sospiri. […] Era una voce? Era un rumore di macchinari senza senso? O c'era dentro una intenzione? Il filo di un pensiero? O una risata?» [Buzzati 1981, p. 93].

«Dapprima, a un distratto ascolto, non si percepiva niente. Poi, a poco a poco, dal silenzio stesso usciva una impalpabile risonanza. [...] Lentamente, nelle attonite orecchie, si formava un rombo melodioso di una corposità così tenue che si restava in dubbio se fosse vero o suggestione. Forse un respiro immenso che saliva e scendeva lentamente, sovrana onda di oceano, che ogni tanto si spegneva con rimescolii gioiosi nelle cavità delle lisce scogliere [...]» [Buzzati 1981, p. 94].

«[...] dal cupo brulichio del silenzio, simile a biscia giovane, si levava esile voce. Non si capiva se provenisse da una fonte sola o da molte. Con strane inflessioni, e pause, e varietà incredibili di timbri, fluttuava, e pareva che da un momento all'altro stesse per articolarsi in un discorso umano, ma giunta al limite, ogni volta sfuggiva, dileguando in un sospiro» [Buzzati 1981, p. 112].

Sono solo alcuni esempi, che servono a rendere (vagamente) l'idea dell'atmosfera che Buzzati crea intorno a questo personaggio “quasi umano”, il cui dramma consiste proprio nell'indescrivibilità della sua condizione, che si può cogliere solo attraverso similitudini, e l'evocazione di gruppi densi di termini e di situazioni che sanno provocare nel lettore un'indecifrabile inquietudine.

E, come succede in altre opere di Buzzati, l'improbabile sembra improvvisamente farsi palpabile, tangibile, ed entrare inaspettatamente nel regno del verosimile, come una possibilità inquietante, che attende da qualche parte le condizioni opportune per materializzarsi, e alla quale non avevamo pensato.

Altro elemento di debolezza, in verità, può essere il finale, che sembra un ripiego, una chiusura in dissolvenza laddove ci si attenderebbe invece un epilogo più compiuto.

Sì, tutto sommato questo romanzo ha l'aria dell'“incompiuto”, tuttavia non è detto che questo debba rappresentare necessariamente un difetto “imperdonabile”. Il grande ritratto dà vita almeno a un personaggio memorabile, secondo me, e con esso ad una invenzione degna di figurare fra le notevoli “creature” dell'immaginario e della letteratura fantastica: grazie a questo lo conservo volentieri nella mia memoria, come una lettura importante.

Opera citata:
[Buzzati 1981]: D. Buzzati, Il grande ritratto (1960), Oscar Mondadori, Milano 1981.












 

4 commenti:

giacy.nta ha detto...

L'ho riletto, dopo molti anni, la settimana scorsa. Condivido la tua analisi. E' bellissimo il momento della "cattura"; quello in cui "lei" parla in un "linguaggio universale". Ho una vecchia edizione, sulla copertina c'è un dipinto molto bello di Buzzati, una donna con uno sguardo vuoto.

ivaneuscar ha detto...

E' un personaggio che rimane impresso; il libro l'avevo letto una prima volta tempo fa, e già mi era rimasta, persistente, questa sensazione. Così mi ero ripromesso di rileggerlo, e l'ho fatto questa estate: come accade con le "seconde letture", ho avuto modo di concentrarmi maggiormente sui dettagli, e ho potuto apprezzare ancora di più la costruzione letteraria e la... "presenza scenica" (non mi vengono in mente espressioni più adatte) della protagonista "quasi-umana".
L'incompiutezza può essere un difetto, in un racconto, romanzo, composizione, ecc., però in qualche caso crea - a volte forse inavvertitamente, a volte coscientemente - un'atmosfera di "sospensione" che lascia al lettore la possibilità di immaginare qualcuno dei "pezzi mancanti".
A mio parere non tutti gli scrittori ci riescono: soltanto alcuni sono capaci di manifestare questa specie di "immaginazione inclusiva", che stimola i sogni del lettore. E' una qualità forse poco considerata dai critici letterari...

giacy.nta ha detto...

E' la qualità che più apprezzo negli scrittori e non solo. Pensa alle ultime opere di Michelangelo o a certe musiche vuote di suoni i cui intervalli puoi riempire a tuo piacimento.

ciccio ha detto...

condivido la tua analisi

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