giovedì 1 marzo 2012

Sensibili affinità: i cortometraggi di Švankmajer


Ci sono registi che sanno condurre un racconto con la sola forza delle immagini, talvolta col supporto della musica, ma sempre senza far parlare i personaggi.

Per chi come me è avvezzo ad esprimersi attraverso le parole (scritte su un foglio, cartaceo o elettronico...) guardare i loro film significa affacciarsi con curiosità su un altro modo di raccontare, su un altro modo di dar vita a piccoli “universi” dell'immaginazione.

Eppure, nonostante il differente mezzo espressivo, con i “piccoli universi” messi in scena da alcuni di questi registi avverto una peculiare affinità; mi riferisco in particolare a cortometraggi la cui capacità di sintetizzare un'intuizione della realtà mi rimanda alla dimensione narrativa che prediligo, quella del racconto o della novella, nella quale il dettaglio diventa essenza e il caso singolare narrato, colto quasi come una folgorante istantanea, diventa specchio in cui si riflette per misteriose vie l'universale, per poi scomparire di nuovo, nella sua indicibilità, al nostro sguardo.

Uno dei registi con cui sento maggiore sintonia, per la sua capacità di sondare il territorio dell'immaginazione, è Jan Švankmajer. Il suo nome forse è conosciuto solo da accaniti cinefili, tuttavia ha un posto di tutto rispetto nella storia del cinema degli ultimi quarant'anni.

Di nazionalità ceca, ha diretto le sue opere più importanti in un periodo travagliato della storia del suo Paese, a partire dalle ultime fasi dello stalinismo (che in Cecoslovacchia continuava negli anni Sessanta, pur pieno di crepe, a imperare e a governare la società, con Novotný al potere), passando poi attraverso la breve speranza della “Primavera” del 1968 (incarnata specialmente dal volto pacato di Dubček) e quindi lungo la dolorosa fase della rinnovata fedeltà-sottomissione a Mosca (con Husák e gli ultimi strascichi del “socialismo reale”) per approdare infine alla democrazia, in séguito alla “rivoluzione di velluto”.

Le sue pellicole in genere non riflettono direttamente un particolare sentire politico, però rappresentano critiche dirompenti, vulcaniche, allo stato di cose, alla “normalità” apparente subita giorno per giorno.

Ne L'appartamento, del 1968 (epoca della Primavera di Praga), un uomo subisce la ribellione silenziosa e incomprensibile degli oggetti e della sua stessa casa, in un'atmosfera nella quale le comuni leggi della fisica, della chimica e della logica sono sospese, dissolte, contraddette.




Alcuni “corti” di Švankmajer esprimono nelle loro immagini un sarcasmo duro, affilato, per nulla disposto a compromessi. E' il caso di Cibo, un breve film in tre parti del 1992, nel quale l'atto del nutrirsi viene assimilato sottilmente e implacabilmente alla crudeltà. I riti della colazione, del pranzo e della cena (le tre parti in cui si suddivide il film), riti coi quali cerchiamo di addomesticare il nostro bisogno primario di nutrirci, nascondono in realtà – suggerisce il regista – il nostro istinto di predatori; ma le “prede” sono i nostri simili e perfino (arriva a mostrare il regista, nell'ultimo segmento del film) parti del nostro stesso corpo, cioè del nostro stesso essere, che la nostra coscienza “civilizzata” ci impone, per un motivo o per l'altro, di eliminare o di fagocitare, forse per l'ossessione che generano in noi e intorno a noi.

Se i cortometraggi citati finora si avvalgono prevalentemente di attori in carne ed ossa (con l'aggiunta di qualche effetto speciale), molti altri lavori del regista ceco si basano invece su tecniche di animazione degli oggetti (in particolare, sulla cosiddetta tecnica dello stop-motion), nelle quali il suo genio creativo eccelle.

Il rapporto fra l'uomo e il suo corpo, ad esempio, su cui s'impernia Cibo, è il tema anche di un “corto” di questo secondo tipo (in questo caso si tratta di animazione con la plastilina), girato da Švankmajer nel 1989, e intitolato Buio, luce, buio (titolo alternativo: Oscurità, luce, oscurità). Nel film, ambientato in una stanza dal soffitto molto basso, viene progressivamente “assemblato” un corpo umano, a partire dalle sue braccia (anzi, dagli avambracci, per la precisione), braccia che sono dotate di vita propria e sono le vere protagoniste del film, poiché “intercettano” man mano i vari pezzi mancanti sino a “edificare” l'uomo completo. Anche in questo caso, però, il finale è tragico-grottesco.

Particolarmente efficace e suggestivo è un altro film che sfrutta la tecnica di animazione degli oggetti, ovvero Possibilità di dialogo (il titolo inglese, col quale l'opera è più conosciuta, corrisponde invece in italiano a Dimensioni del dialogo), girato dal regista ceco nel 1982. Anche questo “corto”, come il già citato Cibo, è suddiviso in tre parti. Nella prima (intitolata nell'originale “Dialogo infinito” e nella versione inglese “Discussione esaustiva”), una serie di oggetti forma tre teste che si ispirano apertamente ai dipinti dell'Arcimboldi, ma che sono reciprocamente ostili; si contrastano, si fagocitano a vicenda con un ritmo parossistico, si ricompongono e si mangiano ancora l'un l'altra, sino a trasformarsi man mano e a prendere sembianze più umane, ma uniformi, standardizzate.

Nella seconda parte (“Discorso appassionato”), viene messo in scena il dialogo amoroso, con due mezzibusti di plastilina, collocati su un tavolo, che rappresentano l'uomo e la donna, e che passano nell'arco di poco tempo dall'attrazione appassionata all'ostilità feroce.

Nella terza (“Dialogo estenuante” nell'originale,“Conversazione effettiva” nella versione inglese), vi sono ancora due teste di plastilina su un tavolo, però entrambe maschili; qui il sarcasmo di Švankmajer, pur avvalendosi apparentemente di una simbologia astratta, centra il proprio bersaglio “concreto”, e attraverso il paradossale (e anche qui parossistico) susseguirsi di numerosi scambi di oggetti fra le due “teste”, raffigura l'armonia che si trasforma pian piano in caos, la civiltà che si sgretola nell'incomprensione e nel conflitto senza senso.




Notevole è anche il “corto” Giochi virili, del 1988, in cui Švankmajer nella sua maniera paradossale e surreale porta alla luce la carica di violenza selvaggia e distruttrice implicita in certi sport e nella passione che suscitano. Addirittura - sembra suggerire il regista - la violenza di un certo tipo di spettacolo nasce dal desiderio di “massacro” simbolico (ma il “simbolico” fa presto a scivolare nel reale e nel concreto) che è presente nello spettatore.






In un altro breve film del 1983, intitolato Down to the Cellar (ovvero: Giù nello scantinato o Giù nel sotterraneo), una bambina si confronta con le proprie paure e con un “mondo sotterraneo” nel quale (un po' come accadeva nell'Appartamento del 1968) tutto - gli adulti come gli oggetti e gli animali - sembra sottrarsi a ogni logica e trasformarsi in una incomprensibile minaccia.



Il ritorno alla democrazia in Cecoslovacchia viene celebrato dal regista a modo suo nel 1990, con il “corto” La morte dello stalinismo in Boemia. Particolarmente suggestivo, a mio parere, perché con pochi tratti raffigura il senso di oppressione vissuto per decenni e poi la liberazione finale (da notare la sequenza in cui vengono snocciolate le "facce del potere", che con la loro semplice comparsa sullo schermo, come tragicomiche silhouette fuori luogo e fuori tempo, evocano un'epoca e un clima non molto felici per le due repubbliche che insieme, un tempo, costituivano appunto la Cecoslovacchia).

Va inoltre detto che Švankmajer ha diretto anche interessanti lungometraggi, fra i quali una singolare rilettura (con toni inquietanti) di Alice di Lewis Carroll.


In conclusione, comunque, al cospetto di un cinema così terso e lucido (pur nella sua visionarietà!), le spiegazioni non possono rendere la ricchezza di significati e suggestioni che provengono dalle immagini, perché queste ultime aprono un dialogo diretto con lo spettatore, coinvolgendolo in un mondo di incubi, che - non realmente raccapriccianti o disturbanti, grazie alla particolare “misura” stilistica dell'autore - appaiono probabili e verosimili, nonostante il loro aperto dissociarsi dalla realtà quotidiana e dalle sue certezze.

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