Uno
scrittore importante, Heinrich Böll (e non solo perché
Premio Nobel). E' tenuto giustamente in grande considerazione dalla
critica e dagli esperti, ma non è uno di quegli autori che si
rileggono più spesso o volentieri – o almeno questa è
la mia personalissima impressione.
La ragione
di questa sorta di “ammirazione a distanza”, o di “ammirazione
fredda”, sta forse nel carattere tagliente, veramente
“teutonico”, della sua prosa, dietro la quale si intravede sempre
uno sguardo critico e sarcastico nei confronti della società
tedesca del dopoguerra. La sua critica, nonostante il titolo di un suo celebre romanzo, non ha però
generalmente nulla della “satira clownesca” alla quale è mediamente avvezzo il lettore (specie se
“mediterraneo”), eppure ha in comune con questa, talora,
l'attenzione per il grottesco che nel quotidiano si nasconde: anzi,
forse a mio parere Böll sa cogliere, e soprattutto sa rendere
nelle sue pagine, in maniera particolarmente efficace questo aspetto
della realtà.
Proprio
come Günter Grass, ad es. – che anche in questi giorni fa
parlare di sé per le controversie politiche che suscita coi
suoi interventi – Böll, come si è detto, non è
tenero verso la Germania del dopoguerra di cui, nelle sue pagine,
mette in luce con instancabile puntiglio una sfilza di
contraddizioni. Ma
per quanto nelle opere di Böll la critica sociale sia
costantemente presente, il suo “impegno” sa farsi strada tra le
pieghe dei personaggi e delle storie che racconta, senza costituire
una corposa e invadente “didascalia” rispetto a ciò che
nella narrazione si svolge.
Un
esempio di quanto appena detto è rappresentato da una
brillante raccolta di racconti, intitolata nell'edizione italiana
“Racconti umoristici e satirici”.
Se qui i personaggi cui Böll dà
vita sembrano non sorridere mai (tranne qualche eccezione) non è forse colpa dello
scrittore, ma dell'ambiente che descrive, nel quale il “prendersi
sul serio” appare una specie di obbligo sociale non dichiarato ma
da tutti accettato. Eppure, per chi sa leggere i racconti dell'autore
tedesco con la dovuta attenzione, il sorriso è quasi sempre
presente in quelle pagine, perché sta per forza di cose
nell'osservatore (nello scrittore, dunque, e di riflesso poi nel
lettore), osservatore che a differenza degli “osservati”
(personaggi e situazioni descritte) è cosciente della
“macchina grottesca” della quale questi sono – pur nella loro
impeccabile, e talora tragica, serietà – protagonisti e
artefici.
Il
racconto nel quale l'elemento “tragico” sembra più
evidente è probabilmente il primo della raccolta, intitolato
La bilancia dei Balek.
E' un'acutissima metafora dell'ingiustizia, o più precisamente
del potere e del privilegio, che rendono nulla e al limite derisoria
la (pur necessaria) giustizia. Sebbene ambientata ai primi del
Novecento, la vicenda ha un sapore fiabesco – anche se di “fiaba
crudele” si tratta. La “bilancia truccata” dei potenti del
villaggio, i Balek del titolo, fa la cresta sulla povertà e
sul bisogno dei loro “sudditi”, e quando il “popolo”,
scoperto l'inganno grazie all'ostinazione di un bambino, prova a
ribellarsi, per la sua irruenza e inesperienza passa facilmente dalla
parte del torto (il popolo stesso, nel suo insieme, sembra un ingenuo
bambino che ha appena aperto gli occhi).
Il
“trucco del potere” non sta però tanto nella bilancia
infedele, ma più a monte: «Una delle leggi che i Balek
avevano dato al villaggio era: nessuno deve avere in casa una
bilancia» [Böll
2007a,
p. 5].
Il
“monopolio della verità” che i Balek – i “signori” e
padroni del villaggio – si erano assicurati attraverso il loro
potere esclusivo di legiferare e di produrre obblighi validi
per gli altri ma non per sé,
era il vero “trucco” che rendeva a priori impossibile, o
puramente derisoria, la giustizia.
L'ingenua
volontà di un bambino (nella finzione, nonno dell'io narrante)
di accertare “la verità”, da tutti sino a quel momento
ignorata, scatena sì una rabbiosa rivolta, ma la violenza
della rabbia non può nulla contro l'ordine pre-stabilito da
sempre a vantaggio dei Balek, che infatti (summum
ius summa iniuria?)
si rivolgono, per ri-stabilire quell'ordine, ai gendarmi, che come
dice il racconto «entrarono sparando e pungendo di baionetta
nella stanza dei miei bisnonni», uccidendo persino una bambina
sempre “in nome dell'ordine”, e dappertutto «gli uomini e
le donne furono minacciati di prigione e i Balek costrinsero il
parroco a mostrare pubblicamente nella scuola la bilancia e a
dimostrare che l'ago della giustizia oscillava come doveva»
[Böll
2007a,
p. 12].
Alla
famiglia del bambino che ha osato mettere in dubbio i “trucchi”
del potere sleale non resta che l'esilio, e – qui la nota del
sarcasmo amaro di Böll – quell'esilio non può avere mai
termine, «perché li addolorava vedere come dappertutto
il pendolo della giustizia battesse falso e sbagliato» [Böll
2007a,
p. 13],
e come ovunque insomma ci fosse, con mille varianti diverse, una
qualche “bilancia truccata”, e truccata sempre a svantaggio degli
umili.
Nel
racconto L'uomo che ride
si manifesta in maniera eclatante la scissione fra il “pubblico”
e il “privato”. Il protagonista del breve racconto è
costretto, da questa scissione che non si può mai ricomporre,
a perdere il possesso di una propria facoltà intima e
personalissima, com'è la capacità di ridere,
interamente e definitivamente consegnata all'attività
“pubblica”, ossia al lavoro.
Ma
questa scissione può essere anche fuga da una sfera “privata”
che, lungi dal rappresentare l'àmbito della piena
realizzazione della persona, è invece il luogo della
costrizione familiare e domestica, e quindi di un tipo
particolarmente penetrante e pervasivo di “spersonalizzazione”. E
se è così – il racconto non contraddice questa
ipotesi – la “duplicità” del protagonista,
apparentemente ridanciano sul lavoro (e anzi a
causa
del suo particolare lavoro) e serio fino alla noia nel “privato”,
deriva dalla necessità di liberare ogni volta una sola parte
di sé, che (tragicamente, anche qui) non può mai
ricongiungersi con l'altra, perché l'intero appartiene solo
all'insondabilità dell'io – occupato com'è a
inseguire il “fantasma della (propria assoluta) libertà”.
Eppure, questa “liberazione a pezzi”
finisce per spersonalizzare il protagonista togliendogli la
possibilità di riconoscere se stesso, finalmente, in una
risata che sia “veramente” tutta e solo sua.
L'immortale
Teodora
ironizza sulla mitizzazione e sulla “canonizzazione” della figura
del poeta (e in genere dell'artista) in una società che
respinge tuttavia la poesia come “altro da sé”, come un
territorio sconosciuto e un po' inquietante, nel quale ci si può
soltanto perdere.
Il poeta “divinizzato” viene
mostrato, con irridente tono aulico, nella sua veste quotidiana,
nelle «botte» che da ragazzo riceveva dal padre, pratico
uomo di affari che aveva in sospetto la poesia, specie quella del
figlio, e nell'amore non corrisposto per un'ordinaria ragazza di
professione commessa, le cui qualità vengono idealizzate,
ingigantite e insomma falsate nei «Canti per Teodora» che
il poeta per lei scrive.
La
ragazza viene quindi “immortalata” dalla poesia, ma non lo sa e
continua ad essere se stessa, anche dopo l'acquisita fama e la
prematura scomparsa del “poeta”; peraltro «non ha la minima
idea di cosa sia l'alta letteratura» [Böll
2007b,
p. 32]
ma è ugualmente felice della sua beata mediocrità e si
fa corteggiare da un meccanico. E forse – azzarda l'io narrante,
amico del defunto poeta – è meglio lasciare che lei continui
a non saper nulla della poesia e del suo “alter ego” letterario,
Teodora. Non saprebbe cosa farsene.
Nella
Confessione di un accalappiacani
torna il tema dell'autorità, dell'ordine pubblico e sociale,
qui sotto forma del rapporto contraddittorio fra affetto e legge. Può
un “tutore dell'ordine”, qual è, a suo modo, un
accalappiacani, per giunta implacabile nel suo lavoro, lasciarsi
intenerire dall'affetto per un singolo
cane, e fare un'eccezione alla sua legge? E soprattutto, può
scoprire così quanto “ingiusta” possa apparire la legge
che da una vita si affanna a far rispettare, quando viene guardata
dal lato del misero, dell'umile (che in questo caso ha le sembianze
di un “bastardino”)?
La
stazione di Zimpren
ha – per il lettore italiano – qualche vaga rassomiglianza con la
trama di un film con Totò, “Destinazione
Piovarolo”
(1955, regìa di D. Paolella): anche qui c'è infatti una
stazione ferroviaria sperduta e dimenticata da tutti, che per un
momento sembra diventare importante attirando personale determinato a far carriera, ma che poi torna – per le capricciose “capriole”
del destino – inesorabilmente deserta e presto anche dimenticata.
Però la “salsa tedesca” del racconto di Böll è
inconfondibile, e soprattutto si tratta di un racconto che – pur
nella sua brevità – è un racconto di ambiente, senza
un vero e unico personaggio centrale.
C'è un'atmosfera di “corsa
all'oro”, che nello specifico è una “corsa al petrolio”,
intorno alla quale un paesino senza importanza si popola rapidamente
di gente in cerca di fortuna e di successo, e la crescita della
stazione ferroviaria è una metafora della crescita smisurata –
anche oltre il limite del logico e del ragionevole – delle
ambizioni di un'intera comunità.
Ed è proprio il sogno
irragionevole di una comunità, della ricchezza facile e a
portata di mano, ad essere il protagonista vero del racconto, tutto
giocato su toni sarcastici e grotteschi. C'è anche il tema
dello scontro fra la “tradizione”, o il vecchio mondo agrario con
le sue incrollabili e talora grette sicurezze (rappresentato dai
personaggi forse meglio caratterizzati del racconto, Flora Klipp e
Goswin, che ostinatamente non credono al “miracolo” del
petrolio), e il “dinamico” mondo nuovo degli affari e
dell'arricchimento veloce. Lo scrittore non sembra parteggiare
nettamente per nessuno dei due mondi – ognuno di essi ha il suo
modo di essere meschino – ma certo gli “affaristi” del petrolio
sono quelli che escono con più “ammaccature” dalla
narrazione.
La
raccolta di silenzi del dottor Murke
è poi un caso a sé. Il sarcasmo e il grottesco dominano
tutto il racconto, ne sono anzi l'essenza, ma la costruzione è
priva come non mai di forzature e di sbavature. La critica infatti
generalmente lo loda, e non a caso. E' una satira del mondo della
radio, ma anche dell'ambiguo rapporto fra cultura (alta, o
semplicemente pretenziosa) e mass-media, ed è anche una
riflessione sul senso della parola, sul suo eccesso come sulla sua
caducità.
Il protagonista del racconto, Murke, ha
il compito di intervenire sui nastri registrati da mandare in onda,
per apportare tagli. Grazie a questo incarico, non vede più
nel materiale da trasmettere qualcosa di compiuto, di perfetto o
addirittura di sacrale (un'opera d'arte, una conferenza, un discorso,
ecc.), ma solo – appunto – un “materiale grezzo” che si può
modificare e manipolare, scomporre e ricomporre, in base alle
indicazioni e alle direttive ricevute dai superiori.
Murke
però s'imbatte già all'inizio del racconto in un
incarico più ingrato del solito, ovvero quello «di
tagliare secondo le indicazioni di Bur-Malottke le due conferenze
sull'essenza dell'arte che appunto il grande Bur-Malottke aveva
inciso su nastro» [Böll
2007c,
p. 59].
Bur-Malottke
è un “intellettuale” pieno di sé, incontentabile e
ampolloso, e per giunta potente o comunque vicino agli ambienti che
contano, e quindi i suoi desideri – per quanto insensati o
capricciosi – sono ordini. Si è convinto, per motivi legati
all'evoluzione del proprio pensiero, di dover cancellare la parola
“Dio”, piuttosto ricorrente nelle sue conferenze, proponendo al
direttore della radio di sostituirla «con la formula
“quell'essere superiore che veneriamo”; si era però rifiutato
di incidere di nuovo le conferenze, lo aveva pregato invece di far
tagliare Dio dalle conferenze e di farvi sostituire: “quell'essere
superiore che veneriamo”» [Böll
2007c,
p. 60].
Se per Bur-Malottke si tratta di
un'esigenza teorica e di “coerenza” col proprio (presunto)
pensiero, per Murke si tratta di una questione squisitamente tecnica;
ma per eseguire bene il proprio lavoro, l'impiegato deve ascoltare
più volte le pesantissime conferenze del “luminare”,
rilevando con precisione quante volte ricorre la parola da sostituire
(“Dio”). In più, deve annotare di volta in volta qual è
il caso in cui ricorre la parola (nominativo, dativo, accusativo,
ecc.: come si sa, è una particolarità del tedesco, ma
anche di altre lingue, specialmente antiche, come il latino). Quindi
procede a far tagliare letteralmente i pezzi di nastro su cui è
incisa la parola da eliminare.
Quando il professore si presenta
finalmente nello studio radiofonico per incidere la nuova formula,
ripetendola il numero di volte necessario, e nel caso appropriato,
Murke sente di odiarlo profondamente, e fa di tutto per rendergli
difficile l'apparentemente facile compito:
«Murke si inserì di nuovo nella comunicazione, dopo che Bur-Malottke aveva pronunciato due genitivi, e disse tranquillo: “Perdoni se La interrompo, i nominativi andavano benissimo, anche il primo genitivo, ma dal secondo genitivo, per favore, ancora una volta, un po' più dolce, un po' meno teso, più temperato, glielo faccio sentire”. E sebbene Bur-Malottke scuotesse vivacemente il capo fece un segno al tecnico perché trasmettesse l'incisione nello studio.[...]Dopo aver finito i dativi, gualcì il foglietto di Murke, si alzò bagnato di sudore e adirato, stava per avviarsi verso la porta ma la giovane voce, l'amabile e gentile voce di Murke lo richiamò. Murke disse: “Professore, ha dimenticato il vocativo”. Bur-Malottke gli lanciò uno sguardo pieno d'odio e pronunciò al microfono: “O tu, essere superiore che veneriamo”. Mentre stava per uscire la voce di Murke lo richiamò ancora indietro: “Scusi professore, ma pronunciata in questa maniera la frase non si può usare”. “Per carità”, gli sussurrò il tecnico, “non esageri”. Bur-Malottke era rimasto sulla porta con la schiena rivolta alla cabina di vetro, quasi vi fosse stato appiccicato dalla voce di Murke. Non era mai stato così confuso e quella voce giovane, amabile, straordinariamente intelligente lo tormentava, come fino ad allora niente lo aveva tormentato. Murke proseguì: “Naturalmente lo posso inserire così nella conferenza, ma mi permetto di farLe osservare, professore, che non farà un bell'effetto”. Bur-Malottke si girò, ritornò verso il microfono e disse lentamente e solennemente: “O tu essere superiore che veneriamo!”» [Böll 2007c, pp. 66-67].
Murke poi, con l'aiuto del collaboratore
tecnico, ritaglia sapientemente il nastro con le parole pronunciate
dal professore, e incolla i pezzi al posto giusto; e ritiene che con
questo il suo “ingrato compito” sia terminato, infatti rifiuta di
riascoltare ancora una volta le conferenze, per verificare l'effetto
delle modifiche e controllare che il risultato finale sia
accettabile. Viene quindi interpellato dal suo capo, che vuole sapere
se tutto è a posto.
«“E' tutto pronto”, disse Murke, “ma le conferenze non ce la faccio proprio a risentirle, proprio non ce la faccio”. “Non ce la faccio è un modo di dire molto infantile” disse Humkoke. “Se oggi devo sentire ancora una volta la parola arte, divento isterico”. “Lo è già”, disse Humkoke, “e io Le concedo addirittura che ha motivo di esserlo. Tre ore di Bur-Malottke distruggono uno, mettono fuori combattimento il più forte degli uomini e Lei non è nemmeno un uomo forte”. Gettò il libro sul tavolo fece un passo verso Murke e disse: “Quando io avevo la sua età ebbi l'incarico di tagliare tre minuti da un discorso di Hitler che durava quattro ore; dovetti sentire il discorso di Hitler tre volte, prima di essere degno di proporre quali tre minuti si sarebbero dovuti tagliare. Quando cominciai a sentire il nastro la prima volta ero ancora nazista, ma quando finii di sentire il discorso per la terza volta non ero più nazista: è stata una cura dura, terribile; ma ha fatto effetto”. “Lei dimentica”, disse Murke piano, “che io ero già guarito da Bur-Malottke prima di sentire i suoi nastri”.» [Böll 2007c, pp. 80-81].
Subito dopo questo dialogo, Humkoke, il
capo di Murke, scopre qualcosa che suscita la sua curiosità;
si tratta pur sempre di ritagli di nastro magnetico, ma di un genere
particolare. Come gli spiega Murke, sono ritagli di silenzio.
«Humkoke lo guardò interrogativamente e Murke continuò: “Quando ho da tagliare dei nastri dove chi parla qualche volta ha fatto una pausa, o anche sospiri, respiri, silenzio assoluto – non li butto nel cestino ma li raccolgo io. [...] “[...] E che ne fa dei ritagli?” “Li attacco l'uno all'altro e sento il nastro quando sono a casa la sera. Non è molto, per ora ho soltanto tre minuti – ma del resto non si tace molto”.» [Böll 2007c, pp. 81-82].
Si tratta di uno “sdoppiamento”
analogo a quello vissuto dal protagonista de L'uomo che ride
[v. sopra]; infatti anche qui è il lavoro a causare la
scissione: Murke ha la necessità di allontanarsi, nella sua
vita privata, dalle parole in eccesso che è costretto ad
ascoltare nell'orario di lavoro, e può liberarsene soltanto
costringendo il nastro magnetico – suo strumento di lavoro e suo
tormento – a essere, contro la stessa “natura” che ad esso è
attribuita, un veicolo del silenzio. Questa “privata ribellione”
ha un senso che può intendere soltanto lui, Murke, e solo a
questa condizione può essere realmente liberatoria; i “pezzi
di silenzio” che sceglie di ascoltare non sono parte di un
“silenzio qualsiasi” (per così dire), ma derivano dagli
scarti prodotti dal suo stesso lavoro, gli unici che – essendo
privi di contenuto per qualsiasi altro “ascoltatore” (in quanto
radicalmente privi di parola) – non sono in alcun modo
recuperabili, secondo il senso comune, che però Murke, nella
sua “privata libertà”, decide di contraddire.
Un personaggio minore del racconto, il
poeta Wandenburn, sembra rendersi conto d'altra parte che consegnare
i discorsi, le idee e le opere letterarie al nastro magnetico, e
quindi di fatto alla parvenza di obiettività che la
“viva voce” offre a chi l'ascolta, significa consegnarsi
disarmati alla possibilità di un'illimitata manipolazione,
“perfetta” dal punto di vista tecnico, della quale nessuno ha
completamente il controllo:
«Wandenburn bevve, posò il bicchiere, guardò i tre uomini, uno dopo l'altro e disse: “Vi metto in guardia contro la radio, questo sporco edificio, leccato, lustrato, strigliato, viscido sporco edificio. Vi metto in guardia. Ci rovina tutti”. L'avvertimento era sincero e fece una notevole impressione sui tre giovanotti [...]. “Ci tagliano”, disse Wandenburn, “consumano la nostra sostanza, ci riattaccano e nessuno di noi resisterà”.» [Böll 2007c, p. 79].
Anche il finale del racconto è
riuscito, e conferma che, in quel mondo della radio descritto da
Böll, niente – al di fuori del silenzio, unica eccezione, che
soltanto Murke sembra cogliere – va mai buttato, e ogni
scarto apparentemente inutile può trovare inaspettatamente una
sua nuova collocazione, una nuova funzione.
Il tema del rapporto dell'uomo col
proprio lavoro torna in altri due racconti, Qualcosa accadrà
– Racconto denso di avvenimenti e Il cestinatore.
Nel primo, Böll mette alla berlina in maniera trasparente la
mentalità del “produttivismo” tedesco, raffigurando nel
personaggio dell'imprenditore Alfred Wunsiedel l'ossessione, tutta
“efficientistica”, per l'attività frenetica, per
l'irrequietezza senza limiti di chi è votato al “fare” e
alla necessità di riempire di gesti utili e “produttivi”
l'intera esistenza. Tuttavia, come lo scrittore magistralmente
suggerisce, questa ossessione, manifestandosi in forma di ideologia o
di precetto, si stacca dal suo scopo originario (la “produzione”)
e diventa fine a se stessa, rivelando quindi tutta la sua natura
paradossale e patologica:
«Lo stesso Wunsiedel del resto era una di quelle persone che la mattina, appena si svegliano, sono già fermamente decise ad agire ad ogni costo: “Devo agire”, dicono stringendo con energia la cintola dell'accappatoio; “Devo agire”, pensano mentre si fanno la barba e gettano sguardi di trionfo sui peli che con la schiuma vanno scivolando nel lavandino. Quei poveri peli sono la prima vittima del loro impetuoso e categorico imperativo all'azione.[...]Appena entrava in ufficio, lanciava il suo saluto alla segretaria: “Bisogna che accada qualcosa!” “E qualcosa accadrà”, rilanciava essa raggiante. Dopo, Wunsiedel andava di reparto in reparto facendo echeggiare il suo allegro: “Bisogna che accada qualcosa!” e tutti in coro: “Qualcosa accadrà”. Anch'io lo salutavo entusiasta appena entrava nella mia stanza e gli gridavo: “Qualcosa accadrà”.» [Böll 2007d, pp. 123-124].
Nel racconto
Il cestinatore,
invece, il protagonista, che è anche l'io narrante, fa della
propria ossessione un punto di
partenza per crearsi una
specializzazione, anche se stramba, in un “mercato del lavoro”
che sembra favorire e incoraggiare gli “specializzati”. E la
“specializzazione” del protagonista è un'altra occasione,
per Böll, di tratteggiare con sarcasmo il culto per la
meticolosità, il rigore e la precisione che regna nel mondo
dominato e caratterizzato dalla produzione industriale, non soltanto
nella società tedesca. Il personaggio del racconto ha solo il
torto di voler portare alle estreme conseguenze questo culto: pur
essendo il più coerente degli “adepti” della meticolosità
e della precisione, viene guardato con sospetto, isolato e costretto
a un'occupazione marginale, al di sotto delle sue potenzialità.
Anche il
racconto che chiude la raccolta, La
pecora nera, va messo in
connessione col tema del lavoro. Quello della “pecora nera”,
suggerisce qui lo scrittore, è un vero mestiere, che in ogni
famiglia si tramanda di generazione in generazione; però si
regge sulla negazione del senso pratico dal quale sono governati
tutti gli altri mestieri. “Pecora nera” è chi scambia i
propri progetti per la realtà, chi si fa abbindolare dai
propri sogni senza preoccuparsi delle difficoltà con le quali
la vita quotidiana li condanna all'impossibilità:
«Non ricordo più la successione cronologica dei miei progetti: erano troppi. I periodi di tempo di cui avevo bisogno per riconoscere che erano progetti senza senso e senza costrutto diventavano sempre più brevi. In ultimo, un progetto durò solo tre giorni, durata troppo breve, sia pure per un progetto. La durata dei miei progetti diminuì così rapidamente che in ultimo erano soltanto pensieri che lampeggiavano e apparivano per poco e nessuno li poteva spiegare perché nemmeno per me erano del tutto chiari. Se ripenso che in fondo mi sono dedicato per tre mesi alla fisiognomica per arrivare da ultimo nello spazio di un solo pomeriggio a voler diventare pittore, giardiniere, meccanico e marinaio, ad addormentarmi col pensiero di essere nato per fare l'insegnante e a risvegliarmi invece con la profonda convinzione che la carriera doganale fosse la mia vocazione!» [Böll 2007e, pp. 160-161].
Nonostante il
fascino e il valore di tutti i racconti fin qui citati, il mio
preferito, in questa raccolta, è comunque Tutti
i giorni Natale. E' una
perfetta “commedia del paradosso”, in cui si mescolano
sapientemente, contaminandosi a vicenda, farsa e teatro dell'assurdo,
cabaret e saga familiare.
E in effetti
si tratta di una riuscitissima satira della famiglia e dei “miti e
riti” ad essa legati. Il Natale, evocato fin dal titolo, è
per antonomasia la “festa della famiglia”, nella quale si
ritrovano e si rinsaldano i legami di parentela attorno al
“focolare”, ma lo è – suggerisce beffardamente Böll
– solo a condizione che la festa
rimanga un giorno eccezionale,
distinto e separato dagli altri giorni dell'anno. Se il Natale, come
accade nel racconto, per un imprevisto e inaudito incepparsi della
“ragione” e del “senso comune”, si riversa nel quotidiano,
pretendendo la continua, incessante e perpetua celebrazione del suo
rituale e dei suoi “valori”, produce un effetto devastante
proprio sul terreno dei legami familiari, portandoli a dissolversi.
La famiglia
non può resistere a lungo sotto i colpi di un “Natale
perenne”, ci dice lo scrittore, e la ripetizione ostinata e
infinita della festa spegne il potere della sua “magia”,
trasformandola in una soffocante condanna.
Esteso
indebitamente sino a divenire rito quotidiano, il Natale non può
più attrarre su di sé alcuna aspettativa, non rafforza
più i legami familiari, ma al contrario ne mette in crisi il
senso, scatenando una progressiva e contagiosa ribellione.
Che succede –
sembra chiedersi qui Böll – se portiamo alle estreme
conseguenze le consolanti “promesse” del Natale? E che ne è
del culto delle “tradizioni”, se queste pretendono di
appropriarsi per intero della nostra vita, centimetro per centimetro,
senza più lasciare spazio ad altro?
Il racconto
ha comunque un tono sempre umoristico, pur nel meccanismo implacabile
del paradosso, e strappa parecchi divertiti sorrisi al lettore,
perché la disgregazione familiare che racconta, benché
narrativamente impeccabile, è così improbabile –
sotto il profilo della “verosimiglianza” – da apparire comica,
dall'inizio alla fine. E tuttavia non così
distante da certi tic
della nostra vita.
Testi
citati:
-
[Böll
2007a]:
H. Böll, La
bilancia dei Balek,
trad. ital. di Lea Ritter Santini, in H. Böll, Racconti
umoristici e satirici,
Tascabili Bompiani, Milano 2007 (XI ediz.) // ed. orig. della
raccolta: H. Böll, Die
schwarzen Schafe,
Lamuv Verlag, Bornheim-Merten 1983.
-
[Böll
2007b]:
H. Böll, L'immortale
Teodora,
trad. it. di L. Ritter Santini, in H. Böll, Racconti
umoristici e satirici,
cit.
-
[Böll
2007c]:
H. Böll, La
raccolta di silenzi del dottor Murke,
trad. it. di L. Ritter Santini, in H. Böll, Racconti
umoristici e satirici,
cit.
-
[Böll
2007d]:
H. Böll, Qualcosa
accadrà. Racconto denso di avvenimenti,
trad. it. di Marianello Marianelli, in H. Böll, Racconti
umoristici e satirici,
cit.
-
[Böll
2007e]:
H. Böll, La
pecora nera,
trad. it. di L. Ritter Santini, in H. Böll, Racconti
umoristici e satirici,
cit.
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