lunedì 7 maggio 2012

Gradite letture: i racconti "umoristici e satirici" di H. Böll


Uno scrittore importante, Heinrich Böll (e non solo perché Premio Nobel). E' tenuto giustamente in grande considerazione dalla critica e dagli esperti, ma non è uno di quegli autori che si rileggono più spesso o volentieri – o almeno questa è la mia personalissima impressione.

La ragione di questa sorta di “ammirazione a distanza”, o di “ammirazione fredda”, sta forse nel carattere tagliente, veramente “teutonico”, della sua prosa, dietro la quale si intravede sempre uno sguardo critico e sarcastico nei confronti della società tedesca del dopoguerra. La sua critica, nonostante il titolo di un suo celebre romanzo, non ha però generalmente nulla della “satira clownesca” alla quale è mediamente avvezzo il lettore (specie se “mediterraneo”), eppure ha in comune con questa, talora, l'attenzione per il grottesco che nel quotidiano si nasconde: anzi, forse a mio parere Böll sa cogliere, e soprattutto sa rendere nelle sue pagine, in maniera particolarmente efficace questo aspetto della realtà.


Proprio come Günter Grass, ad es. – che anche in questi giorni fa parlare di sé per le controversie politiche che suscita coi suoi interventi – Böll, come si è detto, non è tenero verso la Germania del dopoguerra di cui, nelle sue pagine, mette in luce con instancabile puntiglio una sfilza di contraddizioni. Ma per quanto nelle opere di Böll la critica sociale sia costantemente presente, il suo “impegno” sa farsi strada tra le pieghe dei personaggi e delle storie che racconta, senza costituire una corposa e invadente “didascalia” rispetto a ciò che nella narrazione si svolge.

Un esempio di quanto appena detto è rappresentato da una brillante raccolta di racconti, intitolata nell'edizione italiana “Racconti umoristici e satirici”.

Se qui i personaggi cui Böll dà vita sembrano non sorridere mai (tranne qualche eccezione) non è forse colpa dello scrittore, ma dell'ambiente che descrive, nel quale il “prendersi sul serio” appare una specie di obbligo sociale non dichiarato ma da tutti accettato. Eppure, per chi sa leggere i racconti dell'autore tedesco con la dovuta attenzione, il sorriso è quasi sempre presente in quelle pagine, perché sta per forza di cose nell'osservatore (nello scrittore, dunque, e di riflesso poi nel lettore), osservatore che a differenza degli “osservati” (personaggi e situazioni descritte) è cosciente della “macchina grottesca” della quale questi sono – pur nella loro impeccabile, e talora tragica, serietà – protagonisti e artefici.

Il racconto nel quale l'elemento “tragico” sembra più evidente è probabilmente il primo della raccolta, intitolato La bilancia dei Balek. E' un'acutissima metafora dell'ingiustizia, o più precisamente del potere e del privilegio, che rendono nulla e al limite derisoria la (pur necessaria) giustizia. Sebbene ambientata ai primi del Novecento, la vicenda ha un sapore fiabesco – anche se di “fiaba crudele” si tratta. La “bilancia truccata” dei potenti del villaggio, i Balek del titolo, fa la cresta sulla povertà e sul bisogno dei loro “sudditi”, e quando il “popolo”, scoperto l'inganno grazie all'ostinazione di un bambino, prova a ribellarsi, per la sua irruenza e inesperienza passa facilmente dalla parte del torto (il popolo stesso, nel suo insieme, sembra un ingenuo bambino che ha appena aperto gli occhi).

Il “trucco del potere” non sta però tanto nella bilancia infedele, ma più a monte: «Una delle leggi che i Balek avevano dato al villaggio era: nessuno deve avere in casa una bilancia» [Böll 2007a, p. 5].

Il “monopolio della verità” che i Balek – i “signori” e padroni del villaggio – si erano assicurati attraverso il loro potere esclusivo di legiferare e di produrre obblighi validi per gli altri ma non per sé, era il vero “trucco” che rendeva a priori impossibile, o puramente derisoria, la giustizia.

L'ingenua volontà di un bambino (nella finzione, nonno dell'io narrante) di accertare “la verità”, da tutti sino a quel momento ignorata, scatena sì una rabbiosa rivolta, ma la violenza della rabbia non può nulla contro l'ordine pre-stabilito da sempre a vantaggio dei Balek, che infatti (summum ius summa iniuria?) si rivolgono, per ri-stabilire quell'ordine, ai gendarmi, che come dice il racconto «entrarono sparando e pungendo di baionetta nella stanza dei miei bisnonni», uccidendo persino una bambina sempre “in nome dell'ordine”, e dappertutto «gli uomini e le donne furono minacciati di prigione e i Balek costrinsero il parroco a mostrare pubblicamente nella scuola la bilancia e a dimostrare che l'ago della giustizia oscillava come doveva» [Böll 2007a, p. 12].

Alla famiglia del bambino che ha osato mettere in dubbio i “trucchi” del potere sleale non resta che l'esilio, e – qui la nota del sarcasmo amaro di Böll – quell'esilio non può avere mai termine, «perché li addolorava vedere come dappertutto il pendolo della giustizia battesse falso e sbagliato» [Böll 2007a, p. 13], e come ovunque insomma ci fosse, con mille varianti diverse, una qualche “bilancia truccata”, e truccata sempre a svantaggio degli umili.

Nel racconto L'uomo che ride si manifesta in maniera eclatante la scissione fra il “pubblico” e il “privato”. Il protagonista del breve racconto è costretto, da questa scissione che non si può mai ricomporre, a perdere il possesso di una propria facoltà intima e personalissima, com'è la capacità di ridere, interamente e definitivamente consegnata all'attività “pubblica”, ossia al lavoro.

Ma questa scissione può essere anche fuga da una sfera “privata” che, lungi dal rappresentare l'àmbito della piena realizzazione della persona, è invece il luogo della costrizione familiare e domestica, e quindi di un tipo particolarmente penetrante e pervasivo di “spersonalizzazione”. E se è così – il racconto non contraddice questa ipotesi – la “duplicità” del protagonista, apparentemente ridanciano sul lavoro (e anzi a causa del suo particolare lavoro) e serio fino alla noia nel “privato”, deriva dalla necessità di liberare ogni volta una sola parte di sé, che (tragicamente, anche qui) non può mai ricongiungersi con l'altra, perché l'intero appartiene solo all'insondabilità dell'io – occupato com'è a inseguire il “fantasma della (propria assoluta) libertà”.

Eppure, questa “liberazione a pezzi” finisce per spersonalizzare il protagonista togliendogli la possibilità di riconoscere se stesso, finalmente, in una risata che sia “veramente” tutta e solo sua.

L'immortale Teodora ironizza sulla mitizzazione e sulla “canonizzazione” della figura del poeta (e in genere dell'artista) in una società che respinge tuttavia la poesia come “altro da sé”, come un territorio sconosciuto e un po' inquietante, nel quale ci si può soltanto perdere.

Il poeta “divinizzato” viene mostrato, con irridente tono aulico, nella sua veste quotidiana, nelle «botte» che da ragazzo riceveva dal padre, pratico uomo di affari che aveva in sospetto la poesia, specie quella del figlio, e nell'amore non corrisposto per un'ordinaria ragazza di professione commessa, le cui qualità vengono idealizzate, ingigantite e insomma falsate nei «Canti per Teodora» che il poeta per lei scrive.

La ragazza viene quindi “immortalata” dalla poesia, ma non lo sa e continua ad essere se stessa, anche dopo l'acquisita fama e la prematura scomparsa del “poeta”; peraltro «non ha la minima idea di cosa sia l'alta letteratura» [Böll 2007b, p. 32] ma è ugualmente felice della sua beata mediocrità e si fa corteggiare da un meccanico. E forse – azzarda l'io narrante, amico del defunto poeta – è meglio lasciare che lei continui a non saper nulla della poesia e del suo “alter ego” letterario, Teodora. Non saprebbe cosa farsene.

Nella Confessione di un accalappiacani torna il tema dell'autorità, dell'ordine pubblico e sociale, qui sotto forma del rapporto contraddittorio fra affetto e legge. Può un “tutore dell'ordine”, qual è, a suo modo, un accalappiacani, per giunta implacabile nel suo lavoro, lasciarsi intenerire dall'affetto per un singolo cane, e fare un'eccezione alla sua legge? E soprattutto, può scoprire così quanto “ingiusta” possa apparire la legge che da una vita si affanna a far rispettare, quando viene guardata dal lato del misero, dell'umile (che in questo caso ha le sembianze di un “bastardino”)?

La stazione di Zimpren ha – per il lettore italiano – qualche vaga rassomiglianza con la trama di un film con Totò, “Destinazione Piovarolo” (1955, regìa di D. Paolella): anche qui c'è infatti una stazione ferroviaria sperduta e dimenticata da tutti, che per un momento sembra diventare importante attirando personale determinato a far carriera, ma che poi torna – per le capricciose “capriole” del destino – inesorabilmente deserta e presto anche dimenticata. Però la “salsa tedesca” del racconto di Böll è inconfondibile, e soprattutto si tratta di un racconto che – pur nella sua brevità – è un racconto di ambiente, senza un vero e unico personaggio centrale.

C'è un'atmosfera di “corsa all'oro”, che nello specifico è una “corsa al petrolio”, intorno alla quale un paesino senza importanza si popola rapidamente di gente in cerca di fortuna e di successo, e la crescita della stazione ferroviaria è una metafora della crescita smisurata – anche oltre il limite del logico e del ragionevole – delle ambizioni di un'intera comunità.

Ed è proprio il sogno irragionevole di una comunità, della ricchezza facile e a portata di mano, ad essere il protagonista vero del racconto, tutto giocato su toni sarcastici e grotteschi. C'è anche il tema dello scontro fra la “tradizione”, o il vecchio mondo agrario con le sue incrollabili e talora grette sicurezze (rappresentato dai personaggi forse meglio caratterizzati del racconto, Flora Klipp e Goswin, che ostinatamente non credono al “miracolo” del petrolio), e il “dinamico” mondo nuovo degli affari e dell'arricchimento veloce. Lo scrittore non sembra parteggiare nettamente per nessuno dei due mondi – ognuno di essi ha il suo modo di essere meschino – ma certo gli “affaristi” del petrolio sono quelli che escono con più “ammaccature” dalla narrazione.

La raccolta di silenzi del dottor Murke è poi un caso a sé. Il sarcasmo e il grottesco dominano tutto il racconto, ne sono anzi l'essenza, ma la costruzione è priva come non mai di forzature e di sbavature. La critica infatti generalmente lo loda, e non a caso. E' una satira del mondo della radio, ma anche dell'ambiguo rapporto fra cultura (alta, o semplicemente pretenziosa) e mass-media, ed è anche una riflessione sul senso della parola, sul suo eccesso come sulla sua caducità.

Il protagonista del racconto, Murke, ha il compito di intervenire sui nastri registrati da mandare in onda, per apportare tagli. Grazie a questo incarico, non vede più nel materiale da trasmettere qualcosa di compiuto, di perfetto o addirittura di sacrale (un'opera d'arte, una conferenza, un discorso, ecc.), ma solo – appunto – un “materiale grezzo” che si può modificare e manipolare, scomporre e ricomporre, in base alle indicazioni e alle direttive ricevute dai superiori.

Murke però s'imbatte già all'inizio del racconto in un incarico più ingrato del solito, ovvero quello «di tagliare secondo le indicazioni di Bur-Malottke le due conferenze sull'essenza dell'arte che appunto il grande Bur-Malottke aveva inciso su nastro» [Böll 2007c, p. 59].

Bur-Malottke è un “intellettuale” pieno di sé, incontentabile e ampolloso, e per giunta potente o comunque vicino agli ambienti che contano, e quindi i suoi desideri – per quanto insensati o capricciosi – sono ordini. Si è convinto, per motivi legati all'evoluzione del proprio pensiero, di dover cancellare la parola “Dio”, piuttosto ricorrente nelle sue conferenze, proponendo al direttore della radio di sostituirla «con la formula “quell'essere superiore che veneriamo; si era però rifiutato di incidere di nuovo le conferenze, lo aveva pregato invece di far tagliare Dio dalle conferenze e di farvi sostituire: “quell'essere superiore che veneriamo”» [Böll 2007c, p. 60].

Se per Bur-Malottke si tratta di un'esigenza teorica e di “coerenza” col proprio (presunto) pensiero, per Murke si tratta di una questione squisitamente tecnica; ma per eseguire bene il proprio lavoro, l'impiegato deve ascoltare più volte le pesantissime conferenze del “luminare”, rilevando con precisione quante volte ricorre la parola da sostituire (“Dio”). In più, deve annotare di volta in volta qual è il caso in cui ricorre la parola (nominativo, dativo, accusativo, ecc.: come si sa, è una particolarità del tedesco, ma anche di altre lingue, specialmente antiche, come il latino). Quindi procede a far tagliare letteralmente i pezzi di nastro su cui è incisa la parola da eliminare.

Quando il professore si presenta finalmente nello studio radiofonico per incidere la nuova formula, ripetendola il numero di volte necessario, e nel caso appropriato, Murke sente di odiarlo profondamente, e fa di tutto per rendergli difficile l'apparentemente facile compito:

«Murke si inserì di nuovo nella comunicazione, dopo che Bur-Malottke aveva pronunciato due genitivi, e disse tranquillo: “Perdoni se La interrompo, i nominativi andavano benissimo, anche il primo genitivo, ma dal secondo genitivo, per favore, ancora una volta, un po' più dolce, un po' meno teso, più temperato, glielo faccio sentire”. E sebbene Bur-Malottke scuotesse vivacemente il capo fece un segno al tecnico perché trasmettesse l'incisione nello studio.
[...]
Dopo aver finito i dativi, gualcì il foglietto di Murke, si alzò bagnato di sudore e adirato, stava per avviarsi verso la porta ma la giovane voce, l'amabile e gentile voce di Murke lo richiamò. Murke disse: “Professore, ha dimenticato il vocativo”. Bur-Malottke gli lanciò uno sguardo pieno d'odio e pronunciò al microfono: “O tu, essere superiore che veneriamo”. Mentre stava per uscire la voce di Murke lo richiamò ancora indietro: “Scusi professore, ma pronunciata in questa maniera la frase non si può usare”. “Per carità”, gli sussurrò il tecnico, “non esageri”. Bur-Malottke era rimasto sulla porta con la schiena rivolta alla cabina di vetro, quasi vi fosse stato appiccicato dalla voce di Murke. Non era mai stato così confuso e quella voce giovane, amabile, straordinariamente intelligente lo tormentava, come fino ad allora niente lo aveva tormentato. Murke proseguì: “Naturalmente lo posso inserire così nella conferenza, ma mi permetto di farLe osservare, professore, che non farà un bell'effetto”. Bur-Malottke si girò, ritornò verso il microfono e disse lentamente e solennemente: “O tu essere superiore che veneriamo!”» [Böll 2007c, pp. 66-67].

Murke poi, con l'aiuto del collaboratore tecnico, ritaglia sapientemente il nastro con le parole pronunciate dal professore, e incolla i pezzi al posto giusto; e ritiene che con questo il suo “ingrato compito” sia terminato, infatti rifiuta di riascoltare ancora una volta le conferenze, per verificare l'effetto delle modifiche e controllare che il risultato finale sia accettabile. Viene quindi interpellato dal suo capo, che vuole sapere se tutto è a posto.

«“E' tutto pronto”, disse Murke, “ma le conferenze non ce la faccio proprio a risentirle, proprio non ce la faccio”. “Non ce la faccio è un modo di dire molto infantile” disse Humkoke. “Se oggi devo sentire ancora una volta la parola arte, divento isterico”. “Lo è già”, disse Humkoke, “e io Le concedo addirittura che ha motivo di esserlo. Tre ore di Bur-Malottke distruggono uno, mettono fuori combattimento il più forte degli uomini e Lei non è nemmeno un uomo forte”. Gettò il libro sul tavolo fece un passo verso Murke e disse: “Quando io avevo la sua età ebbi l'incarico di tagliare tre minuti da un discorso di Hitler che durava quattro ore; dovetti sentire il discorso di Hitler tre volte, prima di essere degno di proporre quali tre minuti si sarebbero dovuti tagliare. Quando cominciai a sentire il nastro la prima volta ero ancora nazista, ma quando finii di sentire il discorso per la terza volta non ero più nazista: è stata una cura dura, terribile; ma ha fatto effetto”. “Lei dimentica”, disse Murke piano, “che io ero già guarito da Bur-Malottke prima di sentire i suoi nastri”.» [Böll 2007c, pp. 80-81].

Subito dopo questo dialogo, Humkoke, il capo di Murke, scopre qualcosa che suscita la sua curiosità; si tratta pur sempre di ritagli di nastro magnetico, ma di un genere particolare. Come gli spiega Murke, sono ritagli di silenzio.

«Humkoke lo guardò interrogativamente e Murke continuò: “Quando ho da tagliare dei nastri dove chi parla qualche volta ha fatto una pausa, o anche sospiri, respiri, silenzio assoluto – non li butto nel cestino ma li raccolgo io. [...] “[...] E che ne fa dei ritagli?” “Li attacco l'uno all'altro e sento il nastro quando sono a casa la sera. Non è molto, per ora ho soltanto tre minuti – ma del resto non si tace molto”.» [Böll 2007c, pp. 81-82].

Si tratta di uno “sdoppiamento” analogo a quello vissuto dal protagonista de L'uomo che ride [v. sopra]; infatti anche qui è il lavoro a causare la scissione: Murke ha la necessità di allontanarsi, nella sua vita privata, dalle parole in eccesso che è costretto ad ascoltare nell'orario di lavoro, e può liberarsene soltanto costringendo il nastro magnetico – suo strumento di lavoro e suo tormento – a essere, contro la stessa “natura” che ad esso è attribuita, un veicolo del silenzio. Questa “privata ribellione” ha un senso che può intendere soltanto lui, Murke, e solo a questa condizione può essere realmente liberatoria; i “pezzi di silenzio” che sceglie di ascoltare non sono parte di un “silenzio qualsiasi” (per così dire), ma derivano dagli scarti prodotti dal suo stesso lavoro, gli unici che – essendo privi di contenuto per qualsiasi altro “ascoltatore” (in quanto radicalmente privi di parola) – non sono in alcun modo recuperabili, secondo il senso comune, che però Murke, nella sua “privata libertà”, decide di contraddire.

Un personaggio minore del racconto, il poeta Wandenburn, sembra rendersi conto d'altra parte che consegnare i discorsi, le idee e le opere letterarie al nastro magnetico, e quindi di fatto alla parvenza di obiettività che la “viva voce” offre a chi l'ascolta, significa consegnarsi disarmati alla possibilità di un'illimitata manipolazione, “perfetta” dal punto di vista tecnico, della quale nessuno ha completamente il controllo:

«Wandenburn bevve, posò il bicchiere, guardò i tre uomini, uno dopo l'altro e disse: “Vi metto in guardia contro la radio, questo sporco edificio, leccato, lustrato, strigliato, viscido sporco edificio. Vi metto in guardia. Ci rovina tutti”. L'avvertimento era sincero e fece una notevole impressione sui tre giovanotti [...]. “Ci tagliano”, disse Wandenburn, “consumano la nostra sostanza, ci riattaccano e nessuno di noi resisterà”.» [Böll 2007c, p. 79].

Anche il finale del racconto è riuscito, e conferma che, in quel mondo della radio descritto da Böll, niente – al di fuori del silenzio, unica eccezione, che soltanto Murke sembra cogliere – va mai buttato, e ogni scarto apparentemente inutile può trovare inaspettatamente una sua nuova collocazione, una nuova funzione.

Il tema del rapporto dell'uomo col proprio lavoro torna in altri due racconti, Qualcosa accadrà – Racconto denso di avvenimenti e Il cestinatore. Nel primo, Böll mette alla berlina in maniera trasparente la mentalità del “produttivismo” tedesco, raffigurando nel personaggio dell'imprenditore Alfred Wunsiedel l'ossessione, tutta “efficientistica”, per l'attività frenetica, per l'irrequietezza senza limiti di chi è votato al “fare” e alla necessità di riempire di gesti utili e “produttivi” l'intera esistenza. Tuttavia, come lo scrittore magistralmente suggerisce, questa ossessione, manifestandosi in forma di ideologia o di precetto, si stacca dal suo scopo originario (la “produzione”) e diventa fine a se stessa, rivelando quindi tutta la sua natura paradossale e patologica:

«Lo stesso Wunsiedel del resto era una di quelle persone che la mattina, appena si svegliano, sono già fermamente decise ad agire ad ogni costo: “Devo agire”, dicono stringendo con energia la cintola dell'accappatoio; “Devo agire”, pensano mentre si fanno la barba e gettano sguardi di trionfo sui peli che con la schiuma vanno scivolando nel lavandino. Quei poveri peli sono la prima vittima del loro impetuoso e categorico imperativo all'azione.
[...]
Appena entrava in ufficio, lanciava il suo saluto alla segretaria: “Bisogna che accada qualcosa!” “E qualcosa accadrà”, rilanciava essa raggiante. Dopo, Wunsiedel andava di reparto in reparto facendo echeggiare il suo allegro: “Bisogna che accada qualcosa!” e tutti in coro: “Qualcosa accadrà”. Anch'io lo salutavo entusiasta appena entrava nella mia stanza e gli gridavo: “Qualcosa accadrà”.» [Böll 2007d, pp. 123-124].

Nel racconto Il cestinatore, invece, il protagonista, che è anche l'io narrante, fa della propria ossessione un punto di partenza per crearsi una specializzazione, anche se stramba, in un “mercato del lavoro” che sembra favorire e incoraggiare gli “specializzati”. E la “specializzazione” del protagonista è un'altra occasione, per Böll, di tratteggiare con sarcasmo il culto per la meticolosità, il rigore e la precisione che regna nel mondo dominato e caratterizzato dalla produzione industriale, non soltanto nella società tedesca. Il personaggio del racconto ha solo il torto di voler portare alle estreme conseguenze questo culto: pur essendo il più coerente degli “adepti” della meticolosità e della precisione, viene guardato con sospetto, isolato e costretto a un'occupazione marginale, al di sotto delle sue potenzialità.

Anche il racconto che chiude la raccolta, La pecora nera, va messo in connessione col tema del lavoro. Quello della “pecora nera”, suggerisce qui lo scrittore, è un vero mestiere, che in ogni famiglia si tramanda di generazione in generazione; però si regge sulla negazione del senso pratico dal quale sono governati tutti gli altri mestieri. “Pecora nera” è chi scambia i propri progetti per la realtà, chi si fa abbindolare dai propri sogni senza preoccuparsi delle difficoltà con le quali la vita quotidiana li condanna all'impossibilità:

«Non ricordo più la successione cronologica dei miei progetti: erano troppi. I periodi di tempo di cui avevo bisogno per riconoscere che erano progetti senza senso e senza costrutto diventavano sempre più brevi. In ultimo, un progetto durò solo tre giorni, durata troppo breve, sia pure per un progetto. La durata dei miei progetti diminuì così rapidamente che in ultimo erano soltanto pensieri che lampeggiavano e apparivano per poco e nessuno li poteva spiegare perché nemmeno per me erano del tutto chiari. Se ripenso che in fondo mi sono dedicato per tre mesi alla fisiognomica per arrivare da ultimo nello spazio di un solo pomeriggio a voler diventare pittore, giardiniere, meccanico e marinaio, ad addormentarmi col pensiero di essere nato per fare l'insegnante e a risvegliarmi invece con la profonda convinzione che la carriera doganale fosse la mia vocazione!» [Böll 2007e, pp. 160-161].

Nonostante il fascino e il valore di tutti i racconti fin qui citati, il mio preferito, in questa raccolta, è comunque Tutti i giorni Natale. E' una perfetta “commedia del paradosso”, in cui si mescolano sapientemente, contaminandosi a vicenda, farsa e teatro dell'assurdo, cabaret e saga familiare.

E in effetti si tratta di una riuscitissima satira della famiglia e dei “miti e riti” ad essa legati. Il Natale, evocato fin dal titolo, è per antonomasia la “festa della famiglia”, nella quale si ritrovano e si rinsaldano i legami di parentela attorno al “focolare”, ma lo è – suggerisce beffardamente Böll – solo a condizione che la festa rimanga un giorno eccezionale, distinto e separato dagli altri giorni dell'anno. Se il Natale, come accade nel racconto, per un imprevisto e inaudito incepparsi della “ragione” e del “senso comune”, si riversa nel quotidiano, pretendendo la continua, incessante e perpetua celebrazione del suo rituale e dei suoi “valori”, produce un effetto devastante proprio sul terreno dei legami familiari, portandoli a dissolversi.

La famiglia non può resistere a lungo sotto i colpi di un “Natale perenne”, ci dice lo scrittore, e la ripetizione ostinata e infinita della festa spegne il potere della sua “magia”, trasformandola in una soffocante condanna.

Esteso indebitamente sino a divenire rito quotidiano, il Natale non può più attrarre su di sé alcuna aspettativa, non rafforza più i legami familiari, ma al contrario ne mette in crisi il senso, scatenando una progressiva e contagiosa ribellione.

Che succede – sembra chiedersi qui Böll – se portiamo alle estreme conseguenze le consolanti “promesse” del Natale? E che ne è del culto delle “tradizioni”, se queste pretendono di appropriarsi per intero della nostra vita, centimetro per centimetro, senza più lasciare spazio ad altro?

Il racconto ha comunque un tono sempre umoristico, pur nel meccanismo implacabile del paradosso, e strappa parecchi divertiti sorrisi al lettore, perché la disgregazione familiare che racconta, benché narrativamente impeccabile, è così improbabile – sotto il profilo della “verosimiglianza” – da apparire comica, dall'inizio alla fine. E tuttavia non così distante da certi tic della nostra vita.


Testi citati:

- [Böll 2007a]: H. Böll, La bilancia dei Balek, trad. ital. di Lea Ritter Santini, in H. Böll, Racconti umoristici e satirici, Tascabili Bompiani, Milano 2007 (XI ediz.) // ed. orig. della raccolta: H. Böll, Die schwarzen Schafe, Lamuv Verlag, Bornheim-Merten 1983.

- [Böll 2007b]: H. Böll, L'immortale Teodora, trad. it. di L. Ritter Santini, in H. Böll, Racconti umoristici e satirici, cit.

- [Böll 2007c]: H. Böll, La raccolta di silenzi del dottor Murke, trad. it. di L. Ritter Santini, in H. Böll, Racconti umoristici e satirici, cit.

- [Böll 2007d]: H. Böll, Qualcosa accadrà. Racconto denso di avvenimenti, trad. it. di Marianello Marianelli, in H. Böll, Racconti umoristici e satirici, cit.

- [Böll 2007e]: H. Böll, La pecora nera, trad. it. di L. Ritter Santini, in H. Böll, Racconti umoristici e satirici, cit.


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