giovedì 14 giugno 2012

Gradite letture: i racconti di Graham Greene

Ci sono libri e scrittori che promettono fin dalla prima pagina di essere fedeli a un genere particolare, e quindi il lettore sa all'incirca in quale mondo verrà catapultato se a loro si rivolge; sa se leggendo si ritroverà d'un tratto a guardare i troll fare capolino tra gli alberi; sa se gli capiterà di sentir crepitare le pallottole di una sparatoria tesa, dentro un'avventura incalzante; oppure sa che dovrà sentire il cuore del protagonista palpitare per un amore tormentato.

E poi, invece, ci sono autori che non promettono qualcosa di definito e che chiedono al lettore soltanto fiducia, affinché si lasci portare per mano, senza fare troppe domande, facendosi solo incantare dal panorama, qualunque esso sia. Se ci si affida a uno scrittore così, bisogna appunto mettere da parte ogni aspettativa precisa, ed essere pronti a continui cambiamenti di scenario, vagando fra racconti brevissimi, che sono poco più di un'illuminazione felice, e storie appena più complesse, in cui si muovono o si agitano personaggi disegnati con maestria.

In questa categoria dell'imprevedibile che non delude io colloco ad esempio Graham Greene, coi suoi racconti. La raccolta pubblicata non molto tempo fa da Mondadori (nella collana degli “Oscar”) è importante anche perché mette a disposizione del lettore italiano tutti i racconti dello scrittore inglese, unendo quindi in un solo ponderoso volume opere di epoche diverse, che coprono in sostanza tutto l'arco della biografia di Greene, o quasi.

Il laboratorio narrativo di questo autore è sorprendente per varietà di temi e sapienza stilistica. E' noto certamente per i suoi romanzi, dai quali (anche con la sua collaborazione, a volte) sono stati tratti numerosi film; ma i racconti non sono “scarti” del suo lavoro, bensì opere di prim'ordine: dalla cura con la quale sono immaginati e scritti si ricava l'impressione che il loro autore li tenesse in gran considerazione – e che soprattutto con essi intendesse offrire al lettore non una copia in “formato ridotto” dei suoi romanzi ma un lato diverso e ugualmente importante della sua inventiva e della sua “poetica”.

Dicevo che, in qualche modo, i racconti di Graham Greene si possono classificare nella categoria dell'imprevedibile, e questo non solo per la varietà di temi e di soggetti che, nell'insieme, presentano, ma anche perché sembrano costeggiare con attenzione e talora con delicata ironia il mistero che s'insinua nelle vite degli uomini e delle donne comuni; ma non si tratta quasi mai di un mistero eclatante, non presenta tratti spaventosi o sovrannaturali, e nemmeno grotteschi, ma è piuttosto legato al difficile rapporto fra gli esseri umani e la loro (problematica, incompiuta) formazione, fra l'età adulta e un'infanzia che ha lasciato sempre qualcosa in sospeso – qualcosa che in un momento qualsiasi della nostra vita torna improvvisamente a cercarci, a interrogarci.

Non a caso i bambini – o i ricordi d'infanzia riattraversati in vividi flashback – sono fra i protagonisti ricorrenti di questi racconti.

Ragazzini sono ad esempio protagonisti del racconto I distruttori che apre una delle raccolte più importanti di Greene, “Ventuno racconti” (scritti in epoche diverse, fra il 1929 e il 1954). La cattiveria spensierata dei protagonisti, carichi della determinazione che solo la giovane età può dare, porta a conseguenze serie, e al tempo stesso comiche, un gioco crudele.

In Mansioni speciali, sempre dalla raccolta “Ventuno racconti”, il protagonista, il signor Ferraro, scopre attonito di essere stato ingannato dalla propria dipendente, e di essersi completamente sbagliato nel giudicarne le qualità – è uno dei racconti nei quali la vena ironica di Greene ha modo di esprimersi in tutto il suo splendore, ritraendo gli effetti di un brusco disinganno sul temperamento flemmatico e veramente british del protagonista.

Anche ne Il film porno l'ironia di Greene domina la narrazione, però coglie con tratto delicato (ed evitando quindi patetismi) la malinconia del protagonista maschile, deluso dal matrimonio, che si scopre a ricordare con tenerezza, grazie a uno “scherzo del destino” (la “pellicola audace” ricordata nel titolo), una fugace “compagna di avventure” persa ormai di vista nel fuggire degli anni.

Se si vuole comprendere il modo nel quale lo scrittore inglese interpreta e considera il tema del mistero, si deve aver presente Un barlume di spiegazione, altro bel racconto della raccolta giovanile dei “Ventuno racconti”. Qui il protagonista-narrante rivive un episodio della sua infanzia, e a questo collega la scelta più importante della sua vita (lo si comprende, grazie a un piccolo e non ingiustificato coup de théâtre, al termine del racconto); egli sostiene di aver conosciuto il Male incarnato in una precisa persona, un certo Blacker, che da bambino gli fece intuire dolorosamente l'oscurità del “mondo adulto”.

Lo stesso tipo di ispirazione troviamo ne La stanza nel seminterrato, un vero e proprio capolavoro, nel quale il protagonista, Philip Lane, un bambino, si trova coinvolto nell'infelicità domestica dell'adorato maggiordomo Baines. Il mondo degli adulti, considerato in sé un mistero affascinante ma anche destabilizzante dal bambino, contiene dolori e rancori, passioni e follie, che egli non può comprendere, se ne sente schiacciato; per salvare le trame degli adulti, gli si chiede di conservare un segreto, di mentire e poi di tradire, e in tutto questo finisce per vedere – come il protagonista del racconto precedente – una “oscurità” insana che lo atterrisce; però, a differenza dell'altro racconto, qui non c'è riscatto, e il piccolo protagonista viene segnato per sempre dai tragici eventi che inconsapevolmente, rivendicando il suo sacrosanto diritto all'innocenza e alla purezza, contribuisce a provocare.

«Baines stava sollecitando, sperando, implorando, comandando, e la ragazza guardava il tè e i vasetti di porcellana e piangeva. Baines le passò il proprio fazzoletto attraverso il tavolo, ma lei non volle asciugarsi gli occhi; lo torse nel palmo, e lasciò scorrere le lacrime, non voleva far nulla, non voleva parlare, voleva solo opporre una silenziosa resistenza a ciò che temeva, desiderava, e rifiutava di ascoltare, a ogni costo. I due cervelli si battevano sopra le tazze del tè, pur amandosi, e a Philip lì fuori arrivava, oltre il prosciutto, le vespe e il polveroso cristallo di Pimlico, una confusa segnalazione di lotta.
Philip era indagatore, non capiva, e voleva sapere. Andò a collocarsi sulla soglia per vedere meglio; era meno protetto di quanto non fosse mai stato; le vite di altre persone per la prima volta lo commuovevano, lo opprimevano e lo plasmavano. Non sarebbe mai sfuggito a quella scena. Nell'arco di una settimana l'aveva dimenticata, ma condizionò la sua carriera, la lunga austerità della sua vita; ricco e solo, ormai in punto di morte, dicono che avesse domandato: “E lei chi è?”» [Greene 2011a, p. 129]

«“Era carina, sì?” disse la signora Baines, con una voce amara a cui non era abituato.
E' sua nipote.”
A quanto dice lui” replicò dolcemente la signora Baines, come l'orologio sotto la sua fodera. Cercò di scherzarci su. “Quel birbante. Non dirgli che lo so, signorino Philip.” Rimase assolutamente immobile tra il tavolo e la porta, riflettendo intensamente, progettando qualcosa. “Promettimi che non gli dirai nulla. Ti darò quel Meccano, signorino Philip...”
Lui le volse le spalle; non avrebbe promesso, ma non avrebbe raccontato. Non voleva avere niente a che fare con i loro segreti, con le responsabilità che intendevano scaricargli addosso. Il suo unico desiderio era dimenticare. Aveva già ricevuto una dose di vita più abbondante di quanto si fosse aspettato, ed era spaventato. “Un Meccano 2A, signorino Philip.” Non riaprì mai più il suo Meccano, non costruì mai più nulla, non creò mai più nulla; morì, vecchio dilettante, sessant'anni dopo, non lasciandosi dietro nient'altro che il ricordo, nella memoria, della voce maligna della signora Baines che gli dava la buonanotte, dei suoi passi decisi e silenziosi sulla scala per il seminterrato, mentre scendeva, scendeva giù.» [Greene 2011a, p. 133]

Ci sono racconti poi che sono quasi boutade, ben scritte comunque e gradevoli da leggere (ad esempio, Ahimè, povero Maling o Uomini al lavoro).

Il “mistero” si presenta in maniera beffarda ne L'argomentazione della difesa, in cui, nell'àmbito di un processo per omicidio, il rigore della prova costituita dalle testimonianze oculari si rivela del tutto fuori luogo davanti a un singolare “imprevisto”.

Lo stesso connubio di noir e atmosfera paradossale si trova nel racconto Un posticino dalle parti di Edgware Road, in cui un uomo solitario fa un incontro inquietante, all'interno di una sala cinematografica, e l'equilibrio psichico che in lui era già “pericolante”, si incrina decisamente.

L'atmosfera di Al di là del ponte ricorda quella di alcuni romanzi di Greene: tutto ruota intorno al destino del signor Calloway, in fuga perché in possesso di un milione che non gli appartiene, destino sul quale molti, incuriositi, si interrogano. Per lungo tempo sembra non accadere nulla, le giornate del sig. Calloway passano monotone, e persino i poliziotti che gli dànno la caccia se lo lasciano sfuggire sotto il naso, ma sarà un cane a far precipitare gli eventi, senza volerlo.

La giovane protagonista di Una corsa in campagna è stufa della vita borghese che è costretta a vivere nella casa paterna e sogna la fuga “romantica” in compagnia di Fred, un ragazzo scapestrato considerato in genere un “buono a nulla”; forse lei è convinta di poterlo “redimere”, e comunque è affascinata dai suoi modi, però proprio la fallimentare “fuga in campagna” le rivelerà quanto Fred, con la sua autentica e ingestibile disperazione, sia in realtà lontano dai suoi ideali e dai suoi “sogni” e quanto invece lei sia attaccata alle proprie sicurezze “borghesi”, che dopo il disinganno si dimostrano certezze tutto sommato ragionevoli.

Il rapporto di un uomo con la propria infanzia e i ricordi struggenti a questa legati si presenta ancora nel racconto L'innocente: il protagonista torna dopo molti anni di assenza in un luogo per lui significativo, e questo ritorno gli porta alla mente la bambina della quale in un tempo ormai remoto era ingenuamente innamorato; riesce persino a ritrovare un bigliettino che le aveva scritto, e che mai la destinataria aveva letto; ma proprio al contatto con quello scritto infantile tutta la dolcezza del ricordo svanisce: si è condannati – riflette il protagonista – a leggere ogni cosa con gli occhi disincantati del presente.

«Mi ricordai della ragazzina minuta, così come ci si ricorda di qualcuno senza avere una fotografia a cui fare riferimento. Era di un anno più grande di me: doveva avere quasi otto anni. L'amavo con un'intensità che da allora non ho mai più conosciuto, credo, per nessuna. Perlomeno, non ho mai fatto l'errore di ridere dell'amore dei bambini. Possiede la terribile ineluttabilità della separazione, perché non si può realizzare. Certo, si inventano racconti di case in fiamme, di guerre e assalti disperati per dimostrare il proprio coraggio agli occhi di lei, ma mai di matrimonio. Si sa, senza che venga detto, che non può accadere, ma questa consapevolezza non porta a soffrire di meno.
[…]
Esiste qualcosa nell'innocenza che non ci si rassegna mai del tutto a perdere. Adesso, quando non sono soddisfatto di una ragazza, mi basta andare a comprarne un'altra. All'epoca, invece, non mi era venuto in mente niente di meglio che scrivere un messaggio appassionato e lasciarlo scivolare in un buco (era straordinario come iniziassi a ricordare ogni cosa) nel montante di legno del cancello. […] Allora, pensavo, non eravamo in grado di esprimere granché; ma l'espressione inadeguata non significava che il dolore fosse più superficiale di quello che talvolta soffrivamo ora. Ricordai come, per giorni, avessi tastato in quel buco, continuando a trovarvi il pezzetto di carta. Poi le lezioni di ballo erano terminate. Probabilmente l'inverno successivo avevo già dimenticato.
[…]
Fu sconvolgente vedere, alla luce di quella minuscola fiamma, un'immagine di oscena crudezza. Non poteva esserci dubbio: c'erano le mie iniziali sotto quel disegno, infantile e impreciso, di un uomo e una donna. Risvegliò tuttavia meno ricordi delle nuvolette di fiato, delle borse di tela, di una foglia umida, o del monticello di sabbia. Non lo riconoscevo: poteva averlo disegnato uno sconosciuto sporcaccione sul muro di un bagno. Tutto ciò che riuscivo a ricordare erano la purezza, l'intensità, la sofferenza di quella passione.
All'inizio mi sentii come tradito. […] Più tardi, però, quella notte, […] cominciai a rendermi conto della profonda innocenza di quel disegno. Avevo creduto di disegnare qualcosa di bello e pieno di significato; era solo adesso, dopo trent'anni di vita, che quell'immagine mi sembrava oscena.» [Greene 2011b, pp. 119-121]

Richiama l'atmosfera “esotica” di certi romanzi di Greene il racconto Un'opportunità per il signor Lever, nel quale la spedizione africana dell'attempato signor Lever, ultima opportunità per lui di risollevare le proprie sorti, si rivela estremamente difficoltosa, per le condizioni ambientali e per l'impreparazione del protagonista, che sino a quel momento ha sempre vissuto nell'ambiente borghese di Londra. Quando gli sembra di aver raggiunto la mèta del suo viaggio, ovvero un uomo che deve approvare l'acquisto di un certo macchinario prodotto da una ditta di cui Lever è rappresentante, scopre che la febbre gialla l'ha preceduto. Lever non si dà per vinto e mette in atto un piano dettatogli dalla disperazione; ma servirà a nulla? – sembra chiedersi e chiederci Greene in un finale che è ironico e pudico al tempo stesso.

Il racconto Fratello, ambientato a Parigi, è piuttosto breve ma intenso. I comunisti che, braccati dalla polizia, piombano nel bar del protagonista, sembrano antipatici, nella loro sfrontatezza, quasi teppisti. (Bisogna ricordare che questo, come quasi tutti i “Ventuno racconti”, risale agli anni Trenta e quindi descrive atmosfere, anche politiche, di quell'epoca). Il proprietario del bar è dunque visibilmente sollevato quando giungono finalmente gli agenti di polizia; eppure quando scopre in cantina uno dei giovani comunisti, un tedesco, ferito a morte, il suo animo si rivolta contro la crudeltà del destino e contro la spietatezza umana, sicché la visione delle cose si capovolge, e “l'ordine” rivela un cuore cinico e indifferente.

«[...] Aveva gli occhi aperti, che fissavano il proprietario con quell'espressione disperata già avuta in vita. Il proprietario non riuscì a credere che fosse morto. “Kamerad” disse, chinandosi, mentre il fiammifero gli scottava le dita e si spegneva, cercando di richiamare qualche frase tedesca, ma riuscì a ricordare soltanto, mentre si chinava più basso: “Mein Bruder”. Poi a un tratto si voltò, risalì di corsa le scale, agitò la scatola dei fiammiferi sul viso dell'ufficiale e gridò con una bassa voce isterica, a lui, ai suoi uomini e all'avventore, chino sotto la bassa ventola verde: “Cochons! Cochons!”.» [Greene 2011c, p. 175]

Con Io faccio la spia lo scrittore si tuffa ancora una volta nel mondo dell'infanzia. Anche qui il protagonista, il piccolo Charlie Stowe, osserva con curiosità il mondo degli adulti, rappresentato dal padre, e una notte coglie uno scorcio della loro misteriosa e inquietante vita, che non riesce a decifrare. Tuttavia comprende che il padre, che fino a quel momento ha sottovalutato, merita la sua stima.

Di tanto in tanto il “mistero” nella sua accezione più “oscura” fa capolino anche nelle storie narrate da Graham Greene: è il caso, ad esempio, del racconto Prova irrefragabile. Il maggiore a riposo Philip Weaver chiede al colonnello Crashaw, presidente della “Società psichica”, di poter tenere una conferenza per raccontare una sua «straordinaria esperienza». Il colonnello dà il suo assenso, sebbene la richiesta gli sembri insolita anche perché vaga. Nel corso della conferenza, Weaver – che nessuno dei presenti sino a quel momento conosceva – si rivela uno strano personaggio, che parla con una voce stridula, afferma cose banali e perde spesso il filo del discorso. Ad un tratto, quando Crashaw sta per interrompere il noioso e strambo oratore, si verifica un fatto spiacevole, fra lo sconcerto dei presenti, e viene fatta una scoperta incredibile. Ma anche in un racconto come questo, che parla di una “realtà invisibile” e dell'“occulto” rapporto fra spirito e corpo, Greene evita con ironia le convenzioni del genere, e proprio nelle ultime righe della narrazione, in maniera magistrale ribalta la visione “misterica” delle cose, restituendo alla realtà materiale e al corpo la loro importanza.

La fine della festa è un altro racconto sulle esperienze dell'infanzia, delicato e profondo. I protagonisti sono Peter e Francis Morton, fratelli gemelli. I due bambini, come ogni anno, sono stati invitati ad una festa, ma non è una prospettiva gioiosa per loro: Francis infatti, impressionabile e sensibile, temendo il buio, ha paura di essere costretto, come gli anni precedenti, a giocare a nascondino, e il gemello ne è cosciente e vorrebbe proteggerlo; ma gli adulti non capiscono il problema, e non c'è verso di spiegarglielo. Per loro i bambini hanno semplicemente il dovere di affrontare le loro paure e di superarle, anche attraverso il gioco, se necessario. Ma Francis non può farcela: Peter lo sa, è l'unico a saperlo, a percepirlo. Vorrebbe trovare un modo per sottrarre Francis a quella festa, ma i suoi tentativi falliscono. La separazione irreparabile fra adulti e bambini domina tutto il racconto e appare un enigma senza soluzione, carico di sorda minaccia.

Una sensazione di realtà” è un'altra notevole raccolta di Graham Greene, più recente rispetto ai “Ventuno racconti” (essendo stata pubblicata per la prima volta nel 1963), e più orientata verso la personale visione che lo scrittore inglese ha del mistero, nella quale l'elemento umano e onirico predomina sul “sovrannaturale” canonico.

Il racconto che apre la raccolta, uno dei più lunghi tra quelli scritti da Greene, è senz'altro una piccola perla. S'intitola Sotto il giardino, e tratta un tema che, come si è visto, è particolarmente caro al suo autore, ovvero il rapporto fra infanzia ed età adulta. William Wilditch, che nella vita ha molto viaggiato, ha scoperto di avere una grave malattia, dalla quale, nonostante le rassicurazioni dei medici (o forse anche a causa di quelle), teme di non poter guarire. Decide quindi di ritornare, dopo moltissimi anni di assenza, a Winton, nella casa con giardino in cui aveva vissuto da bambino, insieme alla madre e al fratello. Nel frattempo però la madre è morta e la casa è passata in proprietà giusto al fratello George, che è sorpreso (ma non dispiaciuto) di vederlo tornare dopo tanto tempo.
William insegue qualcosa che inizialmente non sa neppur lui definire con chiarezza; ha bisogno di fare luce su un particolare episodio della propria infanzia, e solo tornando nella vecchia casa a Winton se ne rende conto. Sembra che da quell'episodio sia dipeso lo sviluppo di tutta la sua vita successiva: ma soltanto lui lo sa, nessun altro lo intuisce o lo sospetta, anzi saggiando i ricordi di infanzia di George, si accorge che non combaciano esattamente coi propri. William è infatti convinto di essere sparito da casa per più giorni, quand'era bambino, ma il fratello non lo ricorda affatto. E proprio in quei giorni in cui lui era forse scomparso da casa (non riuscirà ormai comunque ad essere certo che quel fatto sia accaduto), aveva scoperto un mondo parallelo nascosto sotto il giardino. Sotto la realtà quotidiana c'era qualcosa la cui esistenza l'allora bambino William non sospettava.
Nella notte di permanenza nella vecchia casa di Winton, l'adulto William non potendo dormire comincia a mettere su carta i propri ricordi e, come in un sogno ad occhi aperti, rivive lo strano incontro con il vecchio Javitt, che trattava l'allora bambino William come se fosse un adulto, usando un linguaggio di una franchezza sconcertante. Il bambino William non poteva comprendere allora il vero senso di tutto ciò che Javitt gli diceva, e neppure dopo tanti anni, fattosi adulto, può decifrarne appieno il mistero. Chi era quell'uomo? Era mai esistito? o era stato prodotto dalla fantasia del piccolo William, durante un sogno, facendolo parlare con frasi prese a prestito da altri adulti reali? In ogni caso, Javitt, chiunque fosse, vero o immaginario, aveva rappresentato per William bambino il brusco incontro con il mistero della vita adulta – esattamente come Baines per il piccolo Philip nel racconto La stanza nel seminterrato [v. sopra], o come Blacker per il piccolo David in Un barlume di spiegazione [v. sopra] – tuttavia qui l'esito non è tragico (come ne La stanza nel seminterrato) né si può dire che l'adulto sia realmente un “cattivo” (come in Un barlume di spiegazione). Javitt qui è la possibilità di una “vita altra”, totalmente inaspettata per il piccolo William, al quale sino a quel momento sono stati imposti i dettami educativi della rigida madre, seguace del Fabianesimo, da lei inteso come un'etica severa, nemica di ogni immaginazione letteraria. Il “mistero” e la fantasia, che erano stati banditi dall'educazione di William, si sono presi la rivincita, comparendo però, con la figura di Javitt, in una forma piuttosto insolita, sarcastica, collerica e irriverente, se non addirittura anarchica (ancora una volta Greene si diverte a scombinare i canoni del “racconto di mistero”).

«Non sono sicuro di questi fatti, si limitano a essere plausibili, ancora non posso vedere quello che sto descrivendo. Ma so che non avrei ritrovato George e mia madre per molti giorni... Non posso essere rimasto sottoterra, checché ne dica George, meno di tre giorni e tre notti. E' mai possibile che lui abbia davvero dimenticato un'esperienza così inesplicabile?
Ed ecco che già sto controllando il mio racconto, come se si trattasse di qualcosa che è realmente accaduto; ma quale possibile attinenza hanno i ricordi di George con gli eventi di un sogno?
Sognai di attraversare il lago, sognai... questo è l'unico fatto certo, e io devo avvinghiarmi a esso, al fatto che sognai. Come si affliggerebbe la mia povera mamma se potesse sapere che, sia pure soltanto per un momento, ho incominciato a pensare a questi eventi come a fatti reali... ma naturalmente, se le fosse possibile sapere ciò che sto pensando adesso, non vi sarebbe alcun limite al campo delle possibilità.
[…] Ben presto mi smarrii, eppure, come avrei potuto smarrirmi se il lago non era più grande di uno stagno e l'isola, di conseguenza, non molto più grande del piano di un tavolo da cucina?
Ancora una volta mi sorprendo a sottoporre a un controllo i miei ricordi, come se si trattasse di fatti reali. Un sogno non tiene alcun conto delle dimensioni. Una pozzanghera può contenere un continente, e un gruppetto d'alberi può estendersi nel sonno fino ai confini del mondo. Sognai, sognai che mi ero smarrito e che la notte cominciava a scendere.» [Greene 2011d, pp. 235-236]

«Non appena scorse il lago, capì quanto George avesse ragione. Non era che un piccolo stagno e a un paio di metri dalla sponda emergeva un'isoletta delle stesse dimensioni della stanza in cui aveva cenato la sera prima. Vi crescevano, sì, cespugli, e anche alcuni alberi, uno dei quali più alto e più grosso degli altri, ma senza dubbio non si trattava né del pino a ombrello del racconto di W.W., né della grande quercia dei suoi ricordi.
[…]
I cespugli gli arrivavano appena alla vita e si inoltrò facilmente in mezzo a essi fino all'albero più alto. Era difficile credere che anche un bimbetto potesse essersi smarrito in un luogo simile. Si trovava nel mondo che George vedeva ogni giorno, facendo il giro di un giardino non molto vasto. Per un minuto, forse, mentre si apriva un varco tra i cespugli, gli parve che tutta la sua vita fosse stata sciupata, così come un uomo tradito dalla sua donna cancella dalla propria mente anche gli anni felici vissuti con lei. Se non fosse stato per il suo sogno della galleria e dell'uomo barbuto e del tesoro nascosto non avrebbe forse potuto condurre un'esistenza meno irrequieta, come George, ammogliandosi, avendo figli e una casa? Cercò di convincersi del fatto che stava esagerando l'importanza di un sogno. […] Poteva almeno andar fiero di non aver mai preso sul serio le sue varie professioni: non era stato fedele a nessuno... neppure alla donna in Africa (Javitt avrebbe approvato la sua slealtà).» [Greene 2011d, pp. 276-277]

In Visita a Morin il “mistero” ha una natura più sfumata, tutta interiore. Il personaggio che è anche l'io narrante del racconto riesce a ritrovare quasi per caso uno scrittore che da ragazzo lo aveva incuriosito, Pierre Morin, del quale non aveva da tempo più sentito parlare. Sino a quel momento lo ha ritenuto un autore cattolico, dalla fede intransigente e priva di incrinature; parlandogli finalmente di persona, nella notte di Natale, scopre, da agnostico, che la fede è più complessa di quanto ritenesse, e che in essa il dubbio – il dubbio del fedele rigoroso che sente di aver perso la capacità di credere – gioca un ruolo importante, forse più importante di ogni “incrollabile certezza”. E tuttavia – suggerisce il cattolico Graham Greene parlando per bocca di Pierre Morin, in maniera sottile e imprevedibile, distinguendo nettamente la fede dalla capacità di credere – il dubbio rigoroso, sofferto, l'incapacità di credere in quanto fame di ciò che si è perduto (e paura di non più ritrovarlo), non distrugge la fede, considerata un patrimonio (sia pure immateriale) che prescinde dai credenti e dalle loro talora drammatiche oscillazioni interiori, e persino dal loro completo inaridimento spirituale.

Un altro piccolo gioiello, per il suo porsi a metà strada fra mondo reale e favola, e per il suo equilibrio, è il racconto Sogno di un altro paese. Richiama alla mente un racconto di Dino Buzzati, Una cosa che comincia per Elle (incluso nei memorabili “Sessanta racconti”), sia per i toni che per il contenuto: anche in questo racconto di Greene, infatti, c'è un malato di lebbra che si vede implacabilmente scacciato, respinto ai margini della società, da parte dell'Autorità – in questo caso incarnata da un medico apparentemente ligio al proprio dovere. Però in Sogno di un altro paese il medico che condanna il povero malato alla “morte civile” non è così ligio ai doveri, come appare; e non è neppure una vera Autorità, giacché deve cedere alle richieste insidiose e invadenti di autorità più grandi di lui, compiacere i desideri di un generale e chiudere anche un occhio davanti alla sua “altolocata” malattia, identica a quella del povero “bollato”; ma sebbene la malattia sia la stessa, i malati non si possono trattare allo stesso modo: ed è sempre il grado di “autorità”, non il “dovere”, a decidere e a stabilire la sorte...

I ragazzini protagonisti di Una scoperta nei boschi ricordano molto da vicino quelli de I distruttori [v. sopra]: anche questi infatti costituiscono una piccola “banda” desiderosa di vivere “avventure” che sovvertano o mettano in crisi il mondo adulto delle regole. Il pretesto che li spinge a esplorare un territorio che va oltre gli angusti confini del villaggio, entro il cui perimetro si svolge la vita ripetitiva dei suoi monotoni abitanti, è la raccolta delle more; ma la vera spinta all'avventura deriva dalla voglia di conoscere un mondo che gli adulti del villaggio deliberatamente ignorano e tagliano fuori dal loro ristretto orizzonte; la libertà di oltrepassare i confini è prerogativa della “spensierata” e temeraria infanzia: i piccoli protagonisti – o almeno i più accorti di loro – sanno già che presto, con l'incombere dei doveri adulti e delle loro leggi, dovranno rinchiudersi a vita nelle ingrate occupazioni del villaggio, che non consentiranno più loro di domandarsi cosa ci sia fuori di là e oltre. E arrivano a scoprire che forse il confronto con quel che non si ha, o si è perduto strada facendo, è a suo modo una faccenda crudele: di qui la triste ragione dei “saggi” divieti degli adulti.

La vita amorosa è il motivo conduttore della raccolta “Ci presti tuo marito?” (pubblicata nel 1967), i cui racconti sono pressoché tutti ambientati sulla Costa Azzurra, in clima di vacanze.
Il racconto eponimo della raccolta, che è il più elaborato e ricco di personaggi, mescola con grande abilità toni diversi e contrastanti: si passa infatti dalla descrizione leggera e sapientemente “pettegola” dei gruppi di inglesi in vacanza al ritratto dell'infelicità interiore della protagonista, la giovane sposa Poopy Travis, che soffre per la freddezza del marito Peter. Nella vicenda tormentata di questo matrimonio, già naufragato ai suoi inizi, si inserisce la stravagante coppia gay, costituita da Stephen e Tony, i quali contribuiscono a rendere Peter cosciente delle proprie segrete inclinazioni. La forma alla fine è salva: il matrimonio riprende il suo corso, grazie alla nuova “consapevolezza” di Peter, ma Poopy resta una vittima predestinata della disillusione.

Molto simile a questo racconto, in quanto a soggetto, è Dispiacere in tre parti, nel quale la giovane Madame Volet, abbandonata dal marito, viene conquistata da Madame Dejoie e scopre dunque un lato di sé che non immaginava di avere: qui la narrazione è però più asciutta e giocata quasi interamente sul tono di una tenera ironia.

In Beauty Graham Greene pone al centro del (breve) racconto, con dignità di personaggio, un cagnolino che riesce a sottrarsi all'amore soffocante della propria padrona, preferendo la strada agli “agi borghesi”.

Manomorta è un altro bel racconto, in cui si narra come nella vita felice di un matrimonio appena nato si faccia strada il tarlo distruttore che l'accorta e sapiente “ex” del marito sa insinuare con le sue apparentemente innocenti premure. Greene sa disegnare molto bene, e con pochi tratti essenziali, i personaggi, e spicca soprattutto il “confronto a distanza” fra la moglie Julia e la “ex” del marito Philip, Josephine, presente solo attraverso le sue lettere e i ricordi di Philip. Lui finisce per perdere la pazienza, urtando la sensibilità della moglie, e sembra fare così proprio il “gioco” di Josephine; ma forse non c'è nessun “gioco”, in realtà, ed è Philip a immaginarselo, forse è lui che si sente frustrato, non riuscendo a cancellare dalla mente il ricordo ossessivo di Josephine.

In agosto costa poco narra di un amore breve e intenso, inatteso quanto insolito. L'inglese in vacanza Mary Watson vorrebbe vivere qualcosa di eccitante, in assenza del marito, un professore americano, ma le sue fantasie non si concretizzano; proprio quando sembra essersi rassegnata alla monotonia, incontra Henry Hickslaughter, un anziano stravagante, col quale fa amicizia. L'“avventura” si svolge in maniera tale da cogliere di sorpresa i suoi stessi protagonisti e del resto si esaurisce tutta in una notte; i due “amanti” sono uniti più dalla loro solitudine che da una qualche affinità (anzi forse non hanno niente in comune, sembra dire il racconto); eppure in quella solitudine che trova così breve conforto c'è una inusitata tenerezza, e il desiderio ha davvero vie imprevedibili per nascere e manifestarsi. C'è qualcosa, nella descrizione che Greene fa di questo amore di una sola notte, che spiazza (e non si tratta, almeno in questo caso, di una qualità negativa); da un lato sembra disincantata, spoetizzante, e per giunta improbabile, ma dall'altro suggerisce con impeccabili toni realistici che l'amore nato dai sensi, di qualunque specie sia, duraturo o passeggero, ha sempre in sé una profonda ragione, tanto che è inutile porsi dubbi o cercare spiegazioni, quando si ha il privilegio di viverlo, fra un'insoddisfazione della vita e l'altra.

«Si sentiva ignobile. Quale rischio poteva mai rappresentare il vecchio da giustificare il rifiuto di mezz'ora di compagnia? Lui non poteva aggredirla, allo stesso modo che la nave non poteva staccarsi dalla roccia e scendere in mare sbuffando verso le Isole Fortunate. Lo immaginava seduto insieme alla sua bottiglia di bourbon mezza vuota, cercando di perdere conoscenza. O forse stava terminando la rude lettera di ricatto al fratello? Che racconto ne poteva trarre un giorno, pensò con disgusto per se stessa mentre si toglieva il vestito: la sua serata con un ricattatore e “pirata”.
C'era almeno una cosa che poteva fare per lui: dargli la sua boccetta di pillole. Indossò la vestaglia e ripercorse il corridoio, stanza per stanza, finché arrivò al 63. La voce di lui le disse di entrare. Aprì la porta e alla luce della lampada sul comodino lo vide seduto sull'orlo del letto in un pigiama di cotone tutto sgualcito a larghe strisce color malva. “Le ho portato...” incominciò, e poi vide con stupore che aveva pianto. I suoi occhi erano arrossati e il nero serale delle guance scintillava di puntini come di rugiada. Aveva visto piangere un uomo solo un'altra volta: Charlie, quando la University Press non aveva accettato il primo volume dei suoi saggi letterari.
Credevo che fosse la cameriera” disse lui. “L'avevo chiamata.”
Cosa voleva?”
Pensavo che avrebbe preso un bicchiere di bourbon” fece lui.
Ci teneva così tanto...? Lo prenderò io un bicchiere.” La bottiglia era ancora sulla toletta dove l'avevano lasciata e anche i due bicchieri: identificò il suo dal segno del rossetto. “Ecco a lei” disse. “Lo beva. La farà dormire.”
Lui disse: “Non sono un ubriacone.”
Certo che non lo è.”» [Greene 2011e, pp. 422-423]

Alcuni brevi racconti della raccolta “Ci presti tuo marito?” sono lievi e ironici e si sviluppano per qualche pagina a partire da spunti singolari o paradossali: appartengono a questa categoria Un orribile incidente, Gli invisibili signori giapponesi (ritratto sarcastico delle ambizioni di una giovane scrittrice), Spaventoso se ci pensi e L'origine di tutti i mali.

Il dottor Crombie disegna la figura di un medico scolastico sui generis, con una sua personalissima teoria sulla vera origine del cancro. Graham Greene sembra provare comunque simpatia per questo suo eccentrico personaggio, perché nonostante l'improponibilità delle sue opinioni “mediche”, mostra compassione per il suo destino di “ostinato perdente” sino a renderci simpatica la sua ossessione, che è stata la rovina della sua carriera professionale. E anche in questo racconto dell'autore inglese fa capolino il tema del rapporto che gli adulti hanno coi loro ricordi d'infanzia.

In Due persone garbate ricompare il tema di In agosto costa poco [v. sopra], ovvero dell'incontro di due persone che, a dispetto dei loro doveri sociali e/o coniugali, scoprono di potersi amare; lo svolgimento però è differente, perché qui sia lui che lei si limitano a parlare un po' di sé, sfiorando col pensiero la possibilità di rivedersi e di approfondire la loro reciproca conoscenza; ma poi, essendo appunto “due persone garbate”, non osano sconvolgere realmente il corso delle cose, sicché ciascuno dei due torna docilmente alla propria infelice vita matrimoniale. L'ironia (molto calibrata e sottile) e il senso del rimpianto si mescolano nel racconto quasi in parti uguali, come accadeva ne Il film porno [v. sopra], che trattava ugualmente del rimpianto per le occasioni sfuggite.

«[...] Nessuno di loro desiderava fare altre domande; sembrava si conoscessero più profondamente di quanto conoscessero qualsiasi altra persona. Era come un matrimonio felice; il periodo della scoperta era finito: avevano superato la prova della gelosia, e ora erano tranquilli nella loro mezza età. Tempo e morte rimanevano i soli nemici, e il caffè fu come un preavviso della vecchiaia. Dopo questo fu necessario tenere lontana la tristezza con un brandy, ma non ci riuscirono. Era come se avessero fatto esperienza di una vita intera, misurata in ore come quella delle farfalle.
[…] Era una agonia mortale ed erano troppo garbati per resistere a lungo. Egli disse: “Posso accompagnarla a casa?”
Preferirei di no. Veramente. Lei abita così vicino.”
Potremmo bere qualcosa sulla terrasse?” suggerì col cuore pesante.
Non farebbe niente di più per noi” disse lei. “La serata è stata perfetta. Tu es vraiment gentil.” Si accorse troppo tardi di aver adoperato il “tu” e sperò che lui non conoscesse abbastanza bene il francese da accorgersene. Non si scambiarono indirizzi o numeri di telefono, poiché né l'uno né l'altra osava suggerirlo: l'ora era giunta troppo tardi nella vita di tutti e due. Le trovò un taxi e lei se ne andò nella direzione del grande Arco illuminato, e lui s'incamminò lentamente verso casa lungo Rue Jouffroy. Quello che è paura nei giovani è buon senso nei vecchi, ma ciononostante ci si può vergognare del buon senso.» [Greene 2011f, pp. 469-470]

L'ultima parola” è una raccolta che appare alquanto diversa da quelle descritte sin qui, ed è anche l'ultima tra quelle pubblicate da Graham Greene (è del 1990, ma alcuni dei  racconti che contiene risalgono a epoche precedenti). Le “tesi” sembrano qua e là prendere il sopravvento rispetto alla “pura” narrazione. In alcuni dei racconti predomina la politica come soggetto: è il caso ad esempio del racconto che dà il titolo alla raccolta, il quale narra della “strana” avventura dell'ultimo pontefice cattolico in un'ipotetica dittatura universale del futuro, oppure de La memoria di un vecchio (che, scritto nel 1989, risulta oscuramente premonitore circa le azioni del terrorismo internazionale del XXI secolo), de Il biglietto della lotteria, nonché di Un appuntamento con il Generale (ambientato anch'esso in un'ipotetica dittatura militare).

Ma neppure in questa raccolta mancano i racconti in cui il talento narrativo di Graham Greene emerge con innegabile evidenza.

E' il caso, ad esempio, di Notiziario in inglese, la cui vicenda si svolge all'epoca della Seconda guerra mondiale. David Bishop, ex professore di matematica ad Oxford, sembra aver tradito la sua patria, l'Inghilterra, mettendosi inaspettatamente a collaborare coi nazisti; eppure, nonostante le apparenze siano contro di lui, la moglie Mary intuisce che le cose stanno diversamente, e afferma contro tutti questa sua intima convinzione; la donna arriva a difendere l'integrità morale del marito anche contro la suocera, che è la prima ad attaccare il proprio figlio, considerandolo un vile traditore. E proprio questo personaggio di giovane donna, Mary Bishop, è tratteggiato con maestria dall'autore, divenendo con la sua fede nel marito il fulcro dell'intero racconto, così come è centrale il contrasto con la suocera, implacabile e dura nell'ostilità “patriottica” che dimostra nei confronti del figlio. Nel finale Mary arriva a capire che il suo David si è sacrificato da eroe per la patria, ma la suocera continua imperterrita a dar credito alle apparenze, che sono a sfavore del figlio; non ci può essere distanza maggiore fra le due donne, sempre più estranee l'una per l'altra, e divise irreparabilmente proprio da ciò che apparentemente le accomuna (il legame con David).

Sempre nella Seconda guerra mondiale è ambientato Il tenente morì per ultimo, che parla con vero humour britannico del modo insolito in cui un villaggio inglese si salva dall'incursione a sorpresa di un gruppo di soldati tedeschi.

L'uomo che rubò la Torre Eiffel è una specie di breve scherzo narrativo, che vuole ironizzare sul carattere dei Francesi.

Il momento della verità è invece un racconto dai toni delicati, che ha per protagonista il cameriere di un ristorante, Arthur Burton, il quale porta in sé un segreto, che improvvisamente sente di poter condividere con una coppia di clienti del ristorante. Nella sua solitudine immagina di aver trovato, sia pure per poco tempo, finalmente degli amici.

Il mondo dei ristoranti è al centro anche del racconto Un ramo del servizio. In questo caso però si aggiunge il tema dello spionaggio, in una veste piuttosto insolita; e nello sviluppo della vicenda ha un ruolo importante anche la sensibilità dello stomaco del protagonista.

Più ortodosso, ma solo fino ad un certo punto – rispetto ai canoni del genere – è l'altro racconto “giallo” della raccolta, Assassinio per la ragione sbagliata. La chiave dell'enigma sta tutta nel passato, in vicende ormai lontane, in occasioni perdute in gioventù (un tema che in qualche modo ricorre in Greene); il presente è arrivato troppo tardi a pareggiare i conti, come suggerisce il titolo.

E in effetti di occasioni e speranze perdute parla anche un altro racconto, La casa nuova, che ha per protagonisti un architetto, Handry, e il suo primo committente, Samuel Josephs. Handry ha una concezione artistica e creativa della propria professione, e Josephs lo invita invece a svilupparne il lato pratico e a diventare più accomodante. Il giovane architetto sembra non volere scendere a compromessi e sacrifica persino la possibilità di guadagno, pur di difendere “l'ideale”. Ma il senso pratico sa trovare la strada per arrivare al cuore anche dei più “puri”...

Molto simile alla raccolta “L'ultima parola” è il gruppo dei “Nuovi racconti” (eterogenei, quanto a epoca di scrittura), che sembra quindi collocarsi nella stessa scia. Anche in questo caso sono presenti temi sociali e politici, e soprattutto Greene sembra interessato qui a occuparsi del comportamento della Chiesa cattolica: lo fa in effetti in due racconti, La benedizione e Chiesa militante. Mentre il secondo è in sostanza un bozzetto ricco di humour sulle ambizioni missionarie del clero in un'Africa che, assillata da ingiustizie sociali e problemi di sopravvivenza, non sempre sembra interessata alla “salvezza spirituale”, il primo, concedendosi di sfuggita anche qualche ironia sul mondo dei giornali e dei giornalisti, si interroga sul vero significato della benedizione. Perché – si chiede lo scettico Weld, protagonista del racconto – un arcivescovo benedice i cannoni? Com'è possibile che Dio nutra benevolenza per macchine di morte e sterminio? La risposta gli giunge inattesa da un semplice fedele. Come in Visita a Morin [v. sopra], Greene in questo racconto fa trasparire in maniera discreta ma netta la sua visione circa talune fondamentali e controverse questioni di fede.

Completano la breve raccolta i racconti Caro dottor Falkenheim, un divertissement dai risvolti macabri su Babbo Natale (e, di straforo, anche sull'infanzia e i suoi traumi: tema non trattato più però col pathos di un tempo, giacché il paradosso pervade la narrazione) e L'altro lato della frontiera, un vecchio racconto che Greene aveva lasciato incompiuto per anni e che si decide a proporre al lettore così com'è, dopo averlo lasciato per decenni a riposare nel cassetto, quasi volesse confrontarsi pubblicamente, a carte scoperte, con la sua ispirazione giovanile, senza nascondere ingenuità e difetti.

In definitiva, scorrendo i numerosi racconti di Graham Greene, si scopre un autore ben più complesso e sfaccettato del “Greene esotico” o “spionistico-avventuroso”, che è quello più noto (e comunque valido), ossia quello di romanzi come Il console onorario o di film come Il terzo uomo. Per Greene, insomma, il racconto non era una semplice “vacanza” fra un romanzo e l'altro, ma un lato importante del suo talento di narratore, nonché un serio impegno, che non viene meno al suo pluridecennale “patto col lettore”, e infatti per quest'ultimo il Greene dei racconti non può che essere, a mio parere, una piacevole scoperta.



Testi citati:

- [Greene 2011a]: G. Greene, La stanza nel seminterrato, trad. ital. di Piero Jahier e May Lis Rissler Stoneman, in G. Greene, Tutti i racconti, Oscar Mondadori, Milano 2011 // ed. orig. della raccolta: Complete Short Stories, Penguin Books, London 2005.

- [Greene 2011b]: G. Greene, L'innocente, trad. ital. di Elena Sciarra, in G. Greene, Tutti i racconti, cit.

- [Greene 2011c]: G. Greene, Fratello, trad. ital. di P. Jahier e M. L. Rissler Stoneman, in G. Greene, Tutti i racconti, cit.

- [Greene 2011d]: G. Greene, Sotto il giardino, trad. ital. di Bruno Oddera, in G. Greene, Tutti i racconti, cit.

- [Greene 2011e]: G. Greene, In agosto costa poco, trad. ital. di Gianna Ottolenghi Galluccio, in G. Greene, Tutti i racconti, cit.

- [Greene 2011f]: G. Greene, Due persone garbate, trad. ital. di G. Ottolenghi Galluccio, in G. Greene, Tutti i racconti, cit.



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